Colpi di qua…
Come sa bene chi mi legge dagli inizi, una certa sera della mia vita ho avuto un’esperienza irriducibile e non replicabile: trovarmi esposta in modo diretto e ravvicinato a un’enorme quantità di spari. Venivano da fucili automatici conditi da qualche granata qua e là, in un quadretto acustico dallo stile affatto sobrio e posato. Questo per circa due ore e mezza, prima che il macabro show terminasse.
Il suono, secco e implacabile, era sempre uguale, cambiava però la cadenza: ora ritmica e prevedibile, ora improvvisata, inattesa, con virtuosismi. Faceva “pam”, “pam”, “ta-ta-ta”, e quando sembrava essere finito, invece ricominciava. Non aveva nulla a che vedere con il rumore degli spari che si vedono nei film, sistemato al mixaggio per risultare molto più basso e livellato con il resto del sonoro. Questo, quello vero, sovrastava ogni cosa, scuoteva il corpo umano e ne inquinava la linfa.
Mi si è fuso nella testa, nei nervi e nel respiro, rimanendovi inscritto. Non ho ancora finito di disinnescarlo e di espungerlo del tutto.
… botti di là
Una delle conseguenze sulla mia psiche di questo bel concerto è stata che per anni non sono più stata in grado di subire il crepitare di fuochi d’artificio, petardi, miccette e simili, senza farmela sotto.
Già poco dopo l’accaduto, quando realizzavo il desiderio di passare il capodanno a New York, non lo festeggiavo a Times Square tra la folla bensì in un localino modesto e dal basso profilo, che per giunta si chiamava “Bar Milano” a ricordarmi ancor più ironicamente la discrepanza dal mio ideale. Avevo sempre sognato di assistere a quei bei festeggiamenti pirotecnici di massa e tuttavia, ora che l’occasione era a portata di mano, se mi fossi forzata a coglierla avrei avuto un attacco di panico o un infarto, lì sul posto, tra uno scoppiettio luccicoso e l’altro.
Champagne!
Anche se oggi va meglio e i botti per me si sono ridimensionati alla categoria del “leggero/medio fastidio”, chiunque abbia mai aperto una bottiglia di spumante in mia compagnia sa che è sempre cosa gradita avvisarmi prima di stappare: “Tappo in arrivo!” Altrimenti una zona non controllabile del mio cervello potrebbe pensare che, insieme al “pum!”, invece che del vino scorrerà del sangue.
Una piccola parte di me ne rimane ineluttabilmente convinta anche quando la scena si svolge senza sorprese sotto ai miei occhi vigili e chi stappa lo fa lentamente, alla luce del sole o delle lampade – dunque senza clamori improvvisi o minacce immaginate, ma puramente nel comfort di una situazione protetta e preannunciata. Di più: comicamente, è così persino quando sono io stessa a voler aprire una bottiglia. La memoria del corpo è un fenomeno con regole e tempi tutti suoi, e che non può essere controllato con la volontà.
Ora che ho reso l’idea di questo speciale disagio, proseguiamo e arriviamo al punto.
Nei panni altrui
Siccome la vita fa sempre in modo di consegnarci nuove analogie, oggi mi ritrovo a convivere con un cane (la preziosissima pet therapy!) che sotto questo aspetto assomiglia alla me di qualche tempo fa. Il fatto che l’ex-randagia Petra provenga da un canile del Napoletano mi porta a immaginare che anche lei deve aver trascorso, un po’ come me, qualche seratina dai frizzi speciali, in cui boati e fragore erano intollerabili; ma in realtà non credo che in qualunque altro caso per lei sarebbe stato tanto diverso. Né ritengo che la cosa abbia un peso differente per molti suoi simili, o per i tanti altri di specie distinte dalla sua che non dispongano di una razionalità avanzata come quella umana.
Guardo Petra allarmarsi, disorientarsi e terrorizzarsi per ciascuno dei mille scoppi di fine anno e mi sembra di rivedere una giovane e traumatizzata Giulia, senza poterla aiutare. So esattamente cosa prova, in ogni fibra del suo essere, e lo so meglio, più degli altri; conosco quel senso totalizzante di fragilità, quell’impotenza davanti a una violenza oscura e sconosciuta che incombe senza un perché, quell’incubo assoluto e incurabile del sentirsi attaccati e perseguitati dall’ignoto. Gli animali, certo non tutti ma molti, quando tutto scoppia provano questo; spesso senza che lo immaginiamo, a meno che non siano i nostri.
Quando ci sono i botti, se anche spiegassi a Petra di che si tratta, lei delle mie parole non se ne farebbe nulla; nel caso di una pur piccola esplosione nelle vicinanze del nostro marciapiede, se non ci fosse il guinzaglio rischierebbe ugualmente di buttarsi ciecamente sotto a una macchina, sentendosi in procinto di venire assassinata. Non mi resterebbe che raccoglierla inerte, proprio come a Capodanno si potrebbero raccogliere le miriadi di uccelli caduti dai loro rami per lo shock, uccelli feriti o morti per impatti mal calcolati, perché per lo spavento a mezz’aria sono andati a sbattere.
Non avevo mai riflettuto troppo sull’argomento prima del mio “incidente”, ma ora questa verità mi si presenta in tutta la sua evidenza: perché ci convivo, di nuovo.
Soffrire è un po’ morire
Ho imparato a non sminuire i terrori degli animali da quando una volta, in Australia, ho visto da vicino un canguro grigio che stava per essere investito da una Jeep impazzita. Sul punto di essere urtato e sbalzato via, si è sbilanciato dovendo deviare all’improvviso la sua passeggiata saltellante, è inciampato e si è ritirato su di fretta per scappare; e lo sguardo che aveva, quello sguardo di puro terrore era umano, perfettamente umano. Lo stesso identico sguardo di un ragazzo che quella mia famosa sera, tra gli spari, ho incrociato nella calca mentre entrambi cadevamo a terra. Da allora per me non c’è differenza, il terrore ha tanti volti ma è uno, e io di pietà ne ho per tutti.
Non sono umane, ma le bestie sentono, eccome se sentono. Anche molto più di noi, per un udito ben più sviluppato, e però non capiscono, quindi è peggio.
Nel caso dei botti gli esseri coinvolti sono tantissimi, troppi perché si possa minimizzare. Sono il cane della vostra amica, il gatto randagio della colonia, i porcellini d’India dei vicini di casa, il riccio dell’aiuola, il tasso che nel buio esplora il bordo del canale, la lepre che cerca la strada verso la tana e non la trova, il bestiame accalcato.
Ma sono anche le persone: quelle come ero io o quelle ancora diverse, a cui per un motivo o per l’altro i botti non fanno bene. E infine sono le persone delle cronache dell’indomani, quelle che inevitabilmente finiranno senza un paio di dita o peggio – e io so bene che è ok ridere delle statistiche, ma magari poi ci si finisce dentro e allora forse si ride comunque ma diversamente.
Buon Anno!
Vorrei che si estirpasse quella ritualità che impone di credere che senza fare scoppiare le cose non ci si divertirà. Davvero non siamo capaci di meglio? Sul serio non possiamo adoperarci per goderci musica, giochi di luci, persone? Tra tutto quel che c’è, dobbiamo per forza simulare lo schifo delle armi da fuoco, come se ci fossimo solo noi?
Per questo Capodanno vi chiedo con il cuore di pensarci e magari, se vi va, anche di parlarne con chi vi sta vicino (anche solo condividendo questo post), affinché la cultura possa un giorno cambiare in meglio. Quel meglio che in noi già c’è, lo so, bisogna solo tirarlo fuori di più.
Buon Anno, prendetevi cura di voi ma abbiatene anche per gli altri.
E grazie di essere passati di qui. 🖤
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Grazie e buona lettura! 🙂
[Foto di copertina di David Garry da Pixabay]
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