Parigi è un rapporto irrisolto, un miraggio di ferro, baci rossi apposti sulle lapidi, un alveare ronzante di amici e nemici che volteggia sospeso sulla Senna.
Parigi è un biglietto aereo pagato dallo stato pochi giorni prima, a sorpresa; è un insonne volo di venti ore, un cartello all’aeroporto con il mio nome, un Bonjour Madame!, un cappotto invernale stropicciato tirato fuori dal bagaglio, un enorme taxi nero riservato con tanto di free wifi.
È il périphérique da varcare e sentirsi subito meglio, sono le case sghembe, imbrattate, la nebbia, gli ombrelli trovati, un fluctuat nec mergitur a decorare fermate di bus che non sono un optional come Down Under, accanto a semafori che non devi prenotare il verde e aspettarlo per cinque minuti; sono le viuzze anguste, consumate, strabordanti di persone e di sigarette, di guinzagli e di cani che capiscono il francese. È lo spazio frettoloso e condensato, è l’Europa, è casa. Una casa di bambole, una miniatura, un diorama. Un tramonto freddo e precoce che rinvigorisce, dissipando quel rammollimento da emisfero meridionale.
Sono i palazzi maestosi che riflettono e irradiano i secoli, invece che giusto qualche decennio australiano; sono le ringhiere regolari dei balconi, eleganti fuori ma con dentro probabilmente solo monolocali fatiscenti, qualche topo e giornate mandate all’aria aspettando un tecnico del contatore che non arriverà mai. È la bocca aperta di meraviglia nel rimirare il tutto scorrere via dal finestrino, mentre un autista ignaro della mia cicatrice mi prende per una turista alle prime armi. Sono i chioschi strabordanti di carta stampata che ancora si vende, e che spesso si chiama Charlie. È il giallo opaco e dolce del flan fresco di boulangerie, delle foglie secche scivolose, delle vite passate di cui tutti hanno scritto, cantato, dipinto.
Parigi è la Tour Eiffel che compare dagli scorci più impensati con un “Buh!”, perché le piace vincere facile. Sono i calligrammi di Apollinaire che ancora fuoriescono dalla sua antenna, gioiosi e giocherelloni nell’etere, in una corolla invisibile, percepibili solo da chi si sintonizza sulle frequenze della poesia.
Parigi è la stanza degli ospiti della mia amica che mi attende con lenzuola pulite, pain au chocolat e sul cuscino le chiavi di casa e una scatola di Prozac, perché la nostra amicizia è anche questo. È il suo cane che se ne frega della lingua in cui gli parlo e mi segue devoto. Sono i souvenir del wombat che schizzano fuori dalla mia valigia, le monetine con su i canguri e gli ornitorinchi da mostrare, e il Vegemite rimasto intatto sul tavolo perché proprio non si può, basta l’odore. Sono nuove storie d’amore nate nel frattempo, e lacrimucce di gioia nell’essere tra loro; è farmi vezzeggiare, viziare, tra un abbraccio e una foto di gruppo. È un corso di recupero accelerato di socialità, è tutto quello che mi è mancato.
Parigi è la colpevole sensazione di essere una scroccona, perché approfitto del viaggio spesato ma alla cerimonia di commemorazione a cui sono invitata, alla fine, non ci vado. Perché stare lì a compiangere no, perché la faccia falso-compunta di Macron e signora no, perché conoscenze a cui spaccherei la faccia no. Perché la folla. Perché troppo dolore tutto in una piazza sola no, perché ho già dato. Perché da due anni il 13 novembre è un po’ il mio compleanno, e al compleanno si sta allegri e in compagnia ben selezionata.
Parigi siamo io e il mio amico che pranziamo al solito posto, beviamo champagne scadente, parliamo e sparliamo, in una lingua straniera che finalmente posso articolare davvero spontaneamente. Sono i rapporti umani che tengono, è la mia ricompensa in una città fatta di persone sedute ai tavoli gomito a gomito – perché lo spazio è poco e loro troppe, e per farne sedere una devi farne spostare tre – e che si ignorano, ma sempre e comunque s’il vous plaît.
Parigi è una narrazione controfattuale. È il poco tempo a disposizione, una corsa di qua e di là, è tutto quello che non faccio in tempo a fare; ed è la difficoltà di accettarlo, così come non accetto di dover morire, prima o poi.
Lascia un commento