La Tasmania è amore in quattro colori: cielo, terra, nuvole, bush
La macchina va, verso la fine del mondo. Ma più lontano non ce n’è, e con gli antipodi conviene farci pace.
Eppure prosegui.
Perché?
Via da ogni traccia di umanità, il mondo è ancora tutto lì. Non è nemmeno troppo grande. Si mangia, si dorme e si ride anche dall’altra parte. Non si sfugge. “Quando imparerai ad accettare, tutta questa lontananza non ti servirà più”.
Ma poi esplode il sole arancione del pomeriggio, e dimentichi tutto. Inghiotti le curve e quelle allungano le ombre.
Superi colline fiorite di casette, villaggi storici in cui ogni mattone ha ancora un nome, paludi sorprese di vederti arrivare, spiagge a cui le onde offrono ostriche come mazzi di fiori.
Prosegui ancora.
Perché?
Pecore scrutano da dentro le vigne, pappagalli interpellano i pascoli, cavalli indossano gualdrappe. Cuccioli osservano il mondo dai marsupi. La macchina tiene.
Ti fermi a dormire, riparti. Assaggi. Scopri. Imprimi. Ti chiedi come dirlo, e se chiedersi come dirlo sia la norma. Ti struggi perché non lo sai fare, perché qui c’è un benessere integrale, primordiale, che non domanda nient’altro e che forse non vuole nemmeno essere detto, solo custodito.
La Tasmania è la mia Australia migliore. Forse anche la mia parte migliore, quella tutta in quell’istante e all’infinito, quella che sa cosa fare e come farlo.
In Tasmania brilla la Natura che ancora decide di noi, che in un breve sussurro ci ricorda la nostra ridicola fragilità. Boschi fitti come la mente umana, che ci puoi entrare ma non li conoscerai mai tutti. Con dentro vite indomite e pensieri volatili, pulsioni invisibili e inestirpabili.
Al fondo del sé
Ho cercato cascate e ho decifrato orme, ho esplorato foreste di solitudine e di silenzio che credevo non esistessero più. Sono stata imprudente, con la certezza che una gomma bucata in mezzo al nulla mi avrebbe trasformata in una nomade cacciatrice e raccoglitrice, all’insaputa di tutti; forse per sempre, forse per giusto un paio di giorni prima della sete, visto che non trovavo nemmeno l’acqua delle cascate. La morte, mi sono raccontata, è sempre meglio per stupidità propria che altrui. Poi l’adrenalina è scesa ed è ricomparsa la strada.
Mi sono fermata a controllare bestie stese lungo il cammino, cercando se fosse rimasto qualcosa da salvare.
Ho scoperto baie nascoste raggiungibili solo con ore di scarpinata e una scommessa tra rocce e muscoli, gradini e giunture.
Ho sfidato le mie paure e loro si sono sciolte al sole.
Ho amato persino le auto d’epoca, le vecchie fabbriche, i macachi giapponesi residenti in un giardino speciale.
Poi da sotto ai tronchi di boscaglia è comparso un echidna, l’ho chiamato Parsifal. Aveva il muso da Parsifal. Cercava.
Gli animali si sono lasciati osservare. Ho fatto ciao a creature bizzarre in centri dedicati alla loro cura e contemplazione. Ho imparato cosa sognano i quoll, i monotremi, i cavallucci marini. No frills. Ho visto nutrire i petauri dello zucchero e poi rimetterli a riposare al buio, in un sacchettino di feltro. Mi sono liquefatta, sfocata, come questo scatto.
Ho sorriso ai diavoli, erano arrabbiatissimi ma non sono riuscita a prenderli sul serio.
Mi sono addormentata in tende, in casupole, in cottage, cullata dalle onde del mare e dai saltelli delle rane, svegliata nel cuore della notte da kookaburra chiacchieroni e da qualche rapace dalle oscure intenzioni.
La verità è che io non so dirla la Tasmania, so solo dire che non la so dire. Sedevo su un prato cinguettante e poteva essere per sempre, senza aggiunte. Niente telefono, niente internet, niente immagini veloci; solo parole da leggere piano, da recuperare e riscoprire, dove il Tempo è ancora Uno e ha valore per ciò che è, non per ciò che dà.
Non servono risposte in un posto che estingue le domande. La Tasmania è il porto materno e dimenticato, è il sé più vero on the other side.
Questo era il mio secondo viaggio in Tasmania. Il primo è qui.
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