Studiare, in Australia, era un’altra delle cose che dovevo fare per dire di averci vissuto davvero. Ecco com’è andata.
L’inizio di un nuovo capitolo
Ho un po’ latitato sul blog, sorry! Zitti zitti e a passo felpato, nella mia Melbourne si sono presentati insieme: l’autunno, la tanto agognata residenza permanente (per la quale avevo fatto quell’odiosa visita medica con il rettile), e la vita funzionale. Tripudio, trombette e stelle filanti.
Addio, visto crudele. Ora posso andare a scuola
La mia permanent residence significa soprattutto che d’ora in poi, per partecipare alle cose del mondo, confluirò con aria di sfida nella casella dei local e non più degli international. Un ventaglio di scelte più ampio a disposizione, e bei quattrini risparmiati – perché in Australia lucrare sugli stranieri è un business assai redditizio al quale anch’io, come tutti, sono stata umilmente asservita. Ora invece mi immagino nei panni di Sailor Mars che incede vittoriosa, agita esultante la chioma e gongola dall’alto del suo laccatissimo tacco 15, ovviamente senza mai inciampare. *Blink!*
Mentre la gente che incontro si congratula per il mio nuovo visto come se si trattasse di lodare una qualche mia eccelsa caratura morale, fior di persone – migranti wannabe esattamente come me – continuano a sopravvivere male. Stanno rinchiuse in centri di detenzione su sperdute isolette del Pacifico, e questo senso di colpa non so bene dove collocarlo e come affrontarlo. E allora lo soffoco, e cerco di fare del mio meglio.
Il mio studiare in Australia: nuove prospettive
Dalle vetrate dell’ascensore trasparente della City saluto ogni giorno una grossa macchia verde di parco (le fronde su cui imperano gli opossum, a cui mi riprometto di andare a portare le banane dopo il tramonto) e tanti grattacieli, gru instancabili, gabbiani e umani di ogni forma, colore e movimento, più o meno bizzarri e impettiti, ciascuno sulla propria traiettoria segmentata.
In aula insieme a me siede un mix di autoctoni e di stranieri dell’Asia Pacific (ma, incredibilmente, niente cinesi, che sono ovunque). Giovani ma anche meno giovani, quel che basta per farmi sentire funzione integrante di una statistica.
“Non vergognatevi per il vostro accento, siatene fieri” ci hanno detto un giorno, e a me si è aperto un mondo.
Insieme al profumo anni Novanta spruzzato dai diffusori automatici nelle toilette (giurerei che si tratti di CK One o CK Be, ovviamente in copia cinese), nella mia prestigiosa scuola si respirano l’ottimismo e la facilità australiani. Anch’io mi astraggo, e mando su per le narici le sempre più prossime opportunities che vengono fatte annusare a ogni piè sospinto.
Sono pure considerata brava – grazie alla mia europeità, che qui è ancora una virtù, e alla quantomeno utile maledizione della sindrome dell’impostore, che almeno fa campare di rendita (già ammetterlo è un passo avanti, malgrado un rovescio della medaglia sempre pronto a ghermire).
Un aiuto che ci voleva
In questo nuovo contesto, oltre ai biglietti per alcuni eventi locali trashissimi (tipo questo), ho anche diritto ad alcune sedute di counseling psicologico, con una biondina empatica dall’aria vagamente punkettona e senz’altro più acuta della media delle ragazze locali – la prima persona a cui ho parlato senza censure di Parigi, e dell’influsso che ha su di me ancora oggi.
(Per i nuovi lettori: a Parigi, tre anni fa, una sera sono andata a un concerto, e quando finalmente ne sono uscita, per terra erano rimasti una novantina di morti ammazzati. Easy, direbbero gli australiani).
Lei, discutendone insieme a me, mi aiuta a decidere. Il mio trauma è un dettaglio che tendenzialmente vorrei tacere, per sentirmi il più normale possibile; ma è anche parte fondamentale della mia motivazione di oggi a occuparmi di qualcosa di bello, e a condividerlo. Mumble mumble. Come vorrei sdoppiarmi. Una gemella siamese aiuterebbe.
Come studiare in Australia da asociale
La gemella attaccata dietro risolverebbe anche un altro quesito: come conciliare il mio voler/saper essere aperta, sorridente, gentile e disponibile, perché in fondo di questo si tratta, con la tentazione di evitare il contatto sociale come la peste, non appena si oltrepassa la soglia del professionale. Così, la mia metà siamese rincaserebbe tranquilla la sera, appagata per essere stata tutto il tempo adorabile e competente, mentre l’altra metà se ne rimarrebbe di spalle a farsi gli affari suoi, con l’auricolare Bluetooth dissimulato sotto ai capelli e la musica sparata direttamente al timpano; e tutti, ma proprio tutti, saremmo felici. E invece no, sono una sola e devo barcamenarmi.
Perché – è emerso dal counseling – io mi sento ancora una certa Morte addosso, parte di quella che ho assorbito. Me ne sento sporca, e non voglio contaminare gli altri, come se fossi radioattiva, anche se poi mica è colpa mia. E poi i trust issues, oh, i trust issues, quelli belli. Come si fa a legarsi a qualcuno? Come si fa a vedere il mondo con candore?
Ridondanze e sprechi per un diploma
Mi distraggo rimirando il mondo locale e ridendoci su. Gli australiani, insegnanti in testa, amano sprecare il tempo altrui con una naturalezza disarmante, connaturata, ignara. Quando finalmente realizzeranno che un altro mo(n)do e possibile, il Paese si evolverà al triplo della velocità e conquisterà il globo. Ma non accadrà – chi glielo fa fare? Nel frattempo ascolto introduzioni che introducono se stesse, leggo slide ricche di niente, partecipo a incontri orientativi che disorientano, mi lascio spiegare l’ovvio e ripetere il tutto. Sono viaggi psichedelici.
Studiare in Australia: livello da emoji
Psichedelici e forse necessari, dal momento che è emerso che alcuni confondono l’Atlantico con il Pacifico, o ignorano quale sia la capitale del Perù o dove viaggi la Transiberiana.
Ma il momento più memorabile – e qui vorrei tutta la vostra solidarietà, amici – è stato quando a turno tutti noi presenti, per fare qualcosa di simpatico, siamo stati chiamati a una lavagna per disegnare il nostro emoji. IL NOSTRO EMOJI. Così, gratuito e decorativo come le foglie d’acanto sul capitello corinzio, il quale però almeno era codificato, realizzato e cesellato da professionisti del settore; i nostri emoji invece, oltre che decontestualizzati, sono pure usciti male. Il mio naturalmente era un koala, malfatto quanto basta.
Imparare e costruire
Sto anche scoprendo di avere una smodata passione, e un certo talento, per combinare numeri, codici e calcoli. Se l’avessi saputo per tempo, magari sarei potuta diventare una di quelli che da vecchi avranno diritto alla pensione. Ma più probabilmente, viste la mia furbizia e lungimiranza, non me ne farò nulla di concreto e passerò presto a tutt’altro (EDIT: infatti!).
Ma niente di tutto ciò è così importante, perché una sola cosa basta a ripagarmi di tutto: al di là del fare l’esperienza esotica di come funzioni studiare in Australia, sto di nuovo costruendo qualcosa, qualcosa che è già bello ma che lo sarà ancora di più. Con desideri e speranze. E come per ogni altro essere umano, mi serviva soprattutto questo. Happy.
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Grazie e buona lettura! 🙂
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