Non avrei mai capito bene il Vietnam, che ho visitato quest’anno, senza conoscere la Grande Madre di tutti i regni di Spacoland. Ergo, la prendo da lontano, parlando di Russia e di russo!
Scegliamo noi una lingua straniera? O è lei a scegliere noi?
Quando da entusiasta giovincella raccontavo che stavo imparando il russo, l’interlocutore di turno mi immaginava animata da un afflato filosofico, trascendente o almeno hipster o comunista.
Invece la mia triviale verità era solo una: che nell’intensivo decennio della mia formazione di spettatrice hollywoodiana, i migliori cattivi li pescavano quasi sempre dalle fila del sovietismo, e parlavano una lingua spaco che, a sorpresa, vibrava alle mie orecchie come se Mozart, Wagner e Čajkovskij si fossero uniti per creare il brano ultimo e definitivo, da lanciare nello spazio a riprova di una civiltà dotata di senso musicale.
(Chi non conoscesse i fondamentali concetti di spaco e Spacoland li trova in questo mio post sull’Ucraina).
La percepivo come una lingua piena, onesta e battagliera. Un po’ da gangster resistente, ribelle e criminale ma in fondo dal cuore d’oro; e un po’ romantica, appassionatamente e devotamente infelice. Un’arma infuocata con cui combattere la patina di questo presente posticcio.
Fu una passione ardentemente naturale, come tutte le cose giuste. Mi misi a riempire quaderni in cirillico, a collezionare abecedari e a sfoggiare orecchini colorati a forma di matrioska, acquistati nei peggiori mercati delle periferie di Mosca Nord.
Nel giro di qualche mese, pur restando una novellina, ero in grado di argomentare meglio la supremazia estetico–morale del russo. Qualche esempio (o se volete, appuntamento subito dopo, al paragrafo sui miei disagi russi):
Supremazia del russo
- In russo non esiste propriamente il concetto di possesso. Per dire che “io ho un panino” si dice, traducendo letteralmente, “presso di me è un panino”. È il panino che si trova lì da me, non sono io che lo posseggo, il rapporto è alla pari. Il russo ha colto il valore della sharing economy secoli prima che diventasse di moda.
- In russo, le richieste si esprimono con uno schietto e diretto imperativo. Laddove noi al bancone ordiniamo “mi dà un panino?”, “vorrei un panino”, un russo invece direbbe “datemi un panino!” (ci si dà del voi, non del lei). Senza fronzoli: se voglio un panino, dammi un panino, e ci separeremo da amici. Poi, se vogliono essere proprio gentili, lo chiedono per favore aggiungendo “siate buoni!”.
- Ogni suono immaginabile, il russo ce l’ha. Suoni morbidi e zuccherini come le coccole tra innamorati, suoni duri come i mattoni gelidi e inespugnabili del Cremlino: presenti. Se il russo fosse una persona, sarebbe un antieroe errante, mitico e leggendario per cui struggersi di desiderio, non un signorino qualunque che in bagno legge Men’s Health; ma comunque un antieroe che combatte controvento in tuta Adidas sotto al cappotto di lana, instancabilmente e freddolosamente al servizio dei suoi ideali – con un romanzo stropicciato in tasca e calzini di spugna dentro a scarpe di sottomarca made in Taiwan. Terribile, ma necessario ed essenziale come tutte le cose destinate a durare, e a dissolvere le superfici per arrivare meglio ai nuclei.
- In Russia, sul classico cartello “Attenti al cane!” c’è scritto, letteralmente: “Abbi paura dei cani cattivi!”. Cuori.
- L’intonazione della frase russa racconta qualsiasi cosa, dalla forma delle basette di Puškin all’ultimo comma di un regolamento autostradale, con il mistero e il coinvolgimento di una fiaba magica di Natale. Il fatto che poi l’accento russo in italiano sia terrificante è uno di quei misteri inspiegabili che si possono solo accettare come una tragica fatalità.
- Il russo non teme nessun argomento: dai vermi dei tuberi al potere del cristallo di luna, possiede sempre un lessico adeguato, fine e terrigno. Dal trash alla metafisica, in russo si può, e si argomenterà sempre come se si cantasse da un palcoscenico illuminato da un fascio di luce diamantata.
- Il russo corsivo scritto a mano è una delle più balorde perversioni umane, una sorta di scrematura degli utenti, una selezione naturale. Chi non è in grado di decifrarlo verrà gettato in un lago ghiacciato in preda a famelici salmoni siberiani, e tanti saluti. Ancora in anticipo sui tempi, il russo ha avuto chiara la necessità di misure contrastive alla sovrappopolazione, e infatti in Siberia son quattro gatti, bontà loro.
- Il russo, come il latino o il tedesco, si declina in vari casi (sei) (Ho provato a spiegare ciò a un australiano, ho ottenuto in cambio uno sguardo vitreo da preda che si finge morta). Significa che parlandolo non ci si può distrarre, mai, o si manderanno in vacca tutte le terminazioni delle parole, che racchiudono il senso finale. In cambio, a furia di allenare il cervello ad allargarsi come un palloncino, migliorerà la capacità mentale di perseverare. Ecco perché i russi sono da sempre grandi resistenti e grandi speculatori, anche senza saperlo. Sono abituati ai concetti grandi e infiniti, non solo perché abitano una terra grande e infinita, ma anche perché la loro mente può contenerli senza sforzo. E poi, con quel freddo cane, si può solo pensare o soccombere (la terza opzione è bere il sangue caldo di qualche compagno più sfortunato, come raccontava qualche romanzo sui gulag di cui non ricordo il titolo, ma lo sconsiglio).
- In russo, per dire “candela” e “supposta” si usa lo stesso termine (svičà). L’illuminazione non si sa mai da dove arrivi!
Disagi russi
Avendone abbastanza della teoria, un bel giorno ho preso coraggio. Sono andata un mese a Mosca, da sola. Prima degli smartphone; c’erano giusto pochi internet-café sparsi per la metropoli. Un’epoca oscura.
A sostenermi: un primo viaggetto turistico di ricognizione; quelle poche certezze di cui sopra; e svariate letture atte a compromettere la gioventù (non ditemi che assorbire Dostoevskij nei primi, impressionabili vent’anni di vita sia innocuo! Sono ancora turbata da personaggi disagiati come Kirillov che si uccide per pura logica, Ivan Karamazov che esige il perché dei bambini che muoiono, o Svidrigajlov e quel suo prefreudiano sognarsi i topi, tutti addosso).
Perché ci sono andata? Probabilmente per poter poi biascicare, con il ghigno della vecchia volpe di mare con la benda da pirata sull’occhio: baby, sono sopravvissuta a un attentato terroristico e a un mese a Mosca.
Perché la Russia ti forgia e ti tempra eccezionalmente, sempre se nel frattempo qualche macchina che passa a 150 all’ora non ti investe sulle strisce: allora no, non ti tempra. Al massimo, se ti chiami Lenin, ti conserva nella formaldeide e ti mette in mostra dietro a un vetro a spettatori paganti, che si incodano per ore sotto la neve della Piazza Rossa.
Tutto questo lo affermo non solo rimembrando con orrore le fatiche che mi occorrevano laggiù per sfangarla nel quotidiano, ma anche ricolma di un’inafferrabile affezione, perché l’amore vero sfugge a una totale comprensione. O forse sono masochista, chi lo sa.
Disclaimer: è stato qualche anno fa, forse ora certa bestialità è stata un pochino estirpata. Se avete esperienze recenti raccontatemele!
Icone russe: personaggi tipici
Se siete stati in Russia, scommetto che avete conosciuto anche voi alcuni di questi variopinti esemplari:
- L’autista ubriaco che mi viene a prendere di notte all’aeroporto, servizio concordato. Guida a 170/h in tangenziale a sei corsie. Davanti all’affronto personale del mio allacciarmi la cintura di soppiatto, alza la voce sdegnato: “Ma che fate? Non serve!”
- Le truci vecchiette-guardiane dei musei, pensionate dalla fede assoluta nel loro lavoro, che riterrebbero più completo potendo disporre di una mazza ferrata. Una signora si siede per sbaglio su una sedia che fa parte dell’esposizione? Quelle accorrono urlando: “Donna! Che fate?!? Questo è un museo! Un MUSEO!!!”, scacciandola con l’aria di volerla macellare e servire nel borsch.
- Gli infermieri chiamati a portarsi via la giovane straniera della stanza accanto alla mia, una poverina in preda a convulsioni. Cosa escogitano per rianimarla? Le gridano in faccia sempre più forte “Cosa aveeteee?”. Poi se la portano via a spalla fino all’ambulanza, dritto all’ospedale locale degli orrori. (Pubblicità progresso: in Russia, mai andare senza assicurazione medica! MAI!)
- La signora dello sportello informazioni che insulta la gente. Alla mia domanda di rispiegarmi un percorso sibila: “Ma ce la fate? Ma siete sorda?!?” – Oookay.
- Gli impiegati che, dopo l’esperienza di cui sopra, cercano di trattarmi male ma non ci riescono, o perché li zittisco subito, oppure perché proprio li tratto male prima io – necessario a quanto pare per guadagnarmi il loro rispetto.
- Il popolo della maršrutka. La maršrutka è un pullmino urbano più piccolo di un autobus, con itinerari integrativi e flessibili e fermate su richiesta, adatto a una decina di passeggeri (o a quasi il doppio di russi intestarditi). Le persone, non appena la maršrutka si avvicina, sgomitano e si strattonano, cercando di rimuoversi fisicamente l’una con l’altra per riuscire a salire. I fortunati che trovano posto, per fare il biglietto, fanno passare ciascuno i propri spiccioli di mano in mano fino all’autista, il quale dopo un po’, guidando senza guardare la strada, rimanda indietro le monetine di resto, altrettanto di mano in mano. È tutto un “Passate, siate buoni!” tra sconosciuti che ancora si massaggiano i lividi della lotta. Più esotico di una crociera alle Maldive.
- I vari addetti alle biglietterie che riesco a ingannare facendomi passare per una russa del Caucaso (grazie ad aria di scazzo + imperativi + zero formule di saluto e ringraziamento). Evito così di pagare le gonfiatissime tariffe per stranieri, doppie o triple rispetto ai residenti. Chi mi conosce sa che, nonostante non mi senta mai all’altezza (della vita, proprio), per questa cosa me la tiro tantissimo. Una gioia.
Altre stravaganti attrattive russe
A questo punto di sgradevolezza russa potreste pensare che io sia pazza, invece no. Tolta via la corteccia di ruvida inospitalità nelle interazioni superficiali, chiaramente un test di sopravvivenza per i forestieri, in Russia ho trovato una profondità e un calore pari solo a quelli italiani.
Sì, in giro si respira il fascino dei combattivi retaggi di paese ex comunista, che cerca di tirare avanti nello sforzo di far dimenticare alle masse la nuova oligarchia milionaria, ancora con la retorica della condivisione, dei razionamenti per la prosperità promessa, dei negozietti di riparazioni meccaniche; e con la salvifica consolazione dell’alcool a buon mercato.
Sì, si incontrano innumerevoli cani randagi, sonnecchianti all’ombra di muretti ridipinti da inutili squadre di quindici imbianchini per dieci metri.
Sì, c’è l’acqua calda che in agosto però non c’è, tolta per “manutenzione”. Vogliamo mettere lavarsi con l’acqua riscaldata in cucina nella pentola, che lusso? In alternativa, per una doccia calda si fa mezz’ora di fila nel seminterrato di un edificio di trenta piani. Volendo si consegnano i propri panni sporchi alla guardiana, che li peserà per farne il bucato al chilo. Si allungano mance e regalini qua e là agli inservienti locali, come unico modo per ottenere servizi garantiti solo sulla carta.
C’è quel senso ineluttabile di ruggente vittoria quando qualcosa va bene, e di aspra sconfitta quando non va.
Poi c’è il kitsch. Il kitsch russo finora è stato superato, nella mia esperienza recentissima, solo dal kitsch romeno (argomento favoloso di cui naturalmente scriverò presto).
Ma c’è anche, possente, la Cultura. Perché in tutte le case dove metto piede ci sono un sacco di libri. Perché la gente sa tante cose. Perché se chiedo a un passante come arrivare alla statua di Gogol, lui mi ci accompagna e si mette a parlarmi dei suoi personaggi, con gli occhi tutti illuminati. Perché in certi musei ho pianto di bellezza. Perché ci sono ancora figure dell’arte e della letteratura universalmente amate e rispettate, perché c’è un patrimonio da custodire che è tutt’altro che morto. Perché se anche il potere preferisce gente ignorante, loro certe cose le conoscono.
Ci sono i bambini. Non ne ho conosciuti in viaggio, ma ho fatto volontariato con loro in Italia, erano loro a venire da noi, dall’area russa poco lontano da Černobyl’. Così fieramente e naturalmente russi! Sono loro che mi hanno insegnato davvero a parlare la lingua, infilandoci tante altre nozioni al tempo a me nuove su come funziona il cuore umano. Anche loro avranno un post dedicato, prima o poi.
E infine c’è un’empatia speciale con tutto questo. Con un popolo fatalista, abituato a sopportare, ad arrangiarsi al meglio e ad appassionarsi in modo totale e senza compromessi. Con una dignità e una fierezza che ancora mi fanno sobbollire il sangue nel cuore.
Non so se tutto ciò abbia un senso, decidete voi.
Forse sono solo una testa suggestionabile che si fa dei grandi film mentali. O forse qui in Australia ci si annoia un po’, e allora io vago con la mente a terre lontane nello spazio-tempo.
Ma l’obiettivo l’ho raggiunto: ora posso pensare a raccontare del Vietnam.
Do svidanija! 🙂
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