Ripartire dalle basi
Salve! Dopo una certa assenza mi pare il caso di ri-presentarmi: sono l’allegra artefice di questo blog, nonché compagna del saggio, serafico, immaginario (e ultimamente anche stitico, se amate le metafore) vombato australiano Lucy. Vivo a Melbourne insieme al suddetto wombat, al PTSD, alla Depressione e a un esemplare di maschio adulto bipede che, inspiegabilmente dato il brioso e vivificante scenario, non sembra intenzionato a scappare a gambe levate.
Quando accetterò pienamente tutto questo, farò passi avanti.
A salve
Salve è la mia forma di saluto preferita, in entrambi i suoi sensi originali: 1) “stai bene, sii in salute”; 2) “a salve”, quando si spara senza lo scopo di ferire. Mi sta a cuore perché tempo addietro hanno cercato di colpirmi e abbattermi con i mitra, senza nemmeno salutare prima, e non è stato simpatico. No, non salutare.
Nella vita faccio cose e non vedo gente. Respingere le nuove richieste d’amicizia è uno dei miei sintomi. Preferisco far ascoltare la musica ai pappagalli, stravedono per le colonne sonore di John Williams.
Sensibilità. In ordine sparso
Amo il profumo intenso estivo degli eucalipti, la fragranza ideale per racchiudere qualche misteriosa forma di divinità ancora da inventare; odio visceralmente le foto di soggetti immortalati nell’atto di saltare a braccia insù – materia e forma del Diavolo.
Un palloncino che scoppia all’improvviso mi allerta, due mi agitano, tre mi rovinano la giornata. Altro che salve. E poi ricordiamolo: i palloncini esplosi, prima o poi qualche animale cercherà di mangiarli e digerirli. È tempo di pensionarli.
Di giorno indosso giacche eleganti e sorrido. Appena posso mi defilo, ascolto musica che non corrisponde ai miei vestiti, mi sento in colpa per un pensiero così superficiale e poi mi sento in colpa di sentirmi in colpa. Sono gentile. Ho l’Apocalisse – passato e futuro – negli occhi e una tara nei geni, una tara zoliana di quelle che si trasmettono lungo tutta una discendenza, e che macinano via ogni forma di libero arbitrio. L’ho ereditata e vorrei evitare di trasmetterla.
Viaggi e peregrinazioni
Spesso viaggio qua e là e trovo la pace. Vedo posti talmente belli da farmi dimenticare per un attimo della forza di gravità, o della gravità tout court. Altro che “viaggiare è vivere”, come afferma qualsiasi contegnoso e ponderato blog di viaggi, tra una foto di un salto di coppia a braccia in su e una di figli infanti con la faccia offuscata da un emoji. Viaggiare è l’oblio assoluto, è tornare a essere non nati, non concepiti e perciò infiniti, è quella libertà lì.
Qualche volta, anche nel bel mezzo della quiete della foresta, rivedo i morti, a decine, e non posso non prenderla sul personale. Poi però nel cielo passa un cacatua, nero con la coda rossa, fischia un richiamo e si posa su un ramo altissimo, riuscendo a illudermi di essere una privilegiata, non si sa bene per cosa.
Più in là, per la mia morte, vorrei essere seppellita direttamente nel terreno, senza strati protettivi intermedi, per tornare alla terra e perdermici per sempre (creepy, se volete, ma c’è tutto un trend in crescita di questa roba).
Per un blog
Finora ho raccontato la vita da queste parti con lo sguardo da straniera – o expat, come si dice per darsi un tono. Ma a furia di sentirmi sempre più a casa, nel bene e nel male, mi sono dovuta interrompere, prendere una pausa e ripensare. E adesso? Come continuare a raccontare?
Ho chiuso Word e sono uscita per cercare della poesia, là fuori da qualche parte, sperando che avesse la risposta. La poesia che si può andare a scovare da turisti non è la stessa; parlo di quella autentica, di quando un luogo si arrende e si concede nella durata. Mi basterebbe solo un po’ di poesia! Quella che può decidere le sorti tra restare e andare. Cambierebbe tutto. Della poesia! Intesa come spirito dominante, come forza benefica in grado di sublimare contemporaneamente le parti e il tutto. Sembra incredibile che a Melbourne non ci sia poesia, eppure finora non l’ho trovata. La sua mancanza invecchia i popoli. Non i corpi, ma le anime.
Dare corpo
“Falla tu!”, prendi il tuo dolore e fanne arte, dicono, come se uno non avesse già abbastanza handicap e ansia da prestazione. Ora, io potrei anche cimentarmi nell’antica e sapiente pratica della riparazione di vasi giapponesi rotti a mezzo di polvere d’oro, così che risultino più belli e unici di prima e possano finire in qualche articoletto motivazionale di autoaiuto, ma sospetto che il mio dolore rimarrebbe là tale e quale, ruminante. Lo immagino come una pila di zucchero filato: gratuito, posticcio, impalpabile, non salutare.
E guarda caso l’altra sera, a un incontro professionale, qualcuno ha pensato bene di offrire, come inesplicabile gadget finale, dello zucchero filato in busta, tutto appiattito. Questa è l’Australia pregnante. Ho ricevuto il mio dolore impacchettato, maneggiandolo come se fosse uno scarafaggio; ho ringraziato e sono fuggita.
Da autentica Sapiens Sapiens europea, quaggiù vivo nel terrore di istupidirmi e diventare del tutto scema. Forse sta già accadendo, lentamente e inesorabilmente, perciò conto attentamente i miei “yeaahhh” in attesa del giorno in cui ne sciorinerò troppi tutti insieme, come fa la gente di qui. Allora autorizzerò qualcuno a sopprimermi (ma non a spararmi), o a riportarmi indietro in terre più civilizzate.
Nel frattempo proverò a raccontare ancora qualcosa.
Grazie agli impavidi e alle impavide che mi seguono.
Ti è piaciuto questo post?
Segui Lucy the Wombat su Facebook!
Iscriviti qui sotto per ricevere i nuovi post via e-mail (il tuo indirizzo verrà utilizzato automaticamente solo per questo scopo).
Grazie e buona lettura! 🙂
Lascia un commento