Storie di gatti, dunque. Questa è quella che è successa a me. Era il 2016.
Storie di gatti a Parigi
Un gatto altrui che mi entrasse dalla finestra l’avevo già avuto, nell’appartamento precedente. Dal cortile, scavalcava la ringhiera rugginosa e si lanciava sul tappeto scolorito; schivava inespressivo i miei miseri tentativi di avvicinamento e si dirigeva alla porta d’ingresso, esigendo che lo facessi uscire sul pianerottolo maleodorante affinché potesse tornarsene a casa sua, al piano di sopra. Doveva aver capito che non ero tipo da gatti, e mi adoperava giusto come usciere.
Perciò, quando Lola entrò nel mio monolocale per la prima volta, la scacciai.
Poco dopo lei rientrò, mi dribblò velocissima e si precipitò verso il bagno, come se già conoscesse la strada. Andò a piazzarsi dentro al piatto doccia, da cui si mise a fissarmi speranzosa. La presi a male parole e la riscacciai. Non volevo essere usata di nuovo, per quanto non capissi dove fosse convinta di arrivare per il tramite di un piatto doccia sbreccato. Doveva averlo scambiato per il Tardis del Doctor Who.
Testarda, Lola fece altri tentativi di irruzione dal balcone, ma io difendevo l’accesso al mio territorio come un Cerbero. Un giorno, però, mi distrassi un attimo e me la ritrovai che beveva avidamente da un pentolino nel lavandino, l’acqua unta delle stoviglie da lavare. Capii e mi arresi.
Piccola storia d’amore con vibrisse
Aveva sete. Non la scacciai e lei non andò via. Ci adottammo. Si guadagnò una tazza quotidiana d’acqua fresca. Io ero l’acqua, lei l’aria.
Portava una medaglietta a forma di osso. Anche a lei, come a me, avevano attribuito dei panni sbagliati. Aveva un irresistibile pancino sporgente che non si lasciò mai toccare, e un piccolo campanello appeso al collare.
*Dlin dlin dlin!* – e accorrevo ad aprirle.
Non chiese mai cibo, voleva solo bere tanto e stare con me, per qualche oscuro motivo che non mi rivelò mai. Insieme, perplesse, vivevamo le nostre identità confuse.
Dopo la prima notte in cui dormì con me, mi suonò alla porta il vicino, fintamente allarmato, che non trovava più la sua gatta. Simulai a mia volta costernazione, mi scusai, lui si scusò, poi entrambi ci salutammo con l’animo segretamente vittorioso; e la situazione proseguì inalterata, con gioia di tutti. Rimasi responsabile dell’abbeveraggio.
Si instaurò un rituale per cui, ogni mattina, la voce del vicino chiamava svogliatamente Lolà la quale, dal mio letto, ascoltava imperturbabile il suo nome accentato, faceva un elegante giro su se stessa e si riacciambellava accanto a me. Storie di gatti.
Adorava mordermi delicatamente il naso e darmi leccatine sulla fronte. Amava anche A., quando non era in viaggio lo svegliava la notte per giocare. Credo che abbia salvato un po’ anche lui.
Il suo sguardo da studiosa non bastò mai a chiarirle fino in fondo perché mai ogni tanto mi infilassi una tuta, mi sdraiassi su un tappetino di gomma e mi producessi in sforbiciate e pedalate nell’aria, e nel sollevamento di manubri colorati. Voleva assistere talmente da vicino che si prese anche qualche involontaria pedata ginnica, che subito ricambiava con una lieve testata affettuosa. *Non ti scusare, lo so che non l’hai fatto apposta*.
Le piaceva l’italiano, e lo faceva amare di più anche a me. Preferiva “Lòla” a “Lolà”. Con lei riflettevo sulle parole della mia lontana lingua madre, nell’impossibilità di disporne nel mondo là fuori. Mi ci dedicavo nel pensiero, lei era il mio vocabolario. “Mordicchiare”, “acciambellarsi”, “vibrisse”. Faceva le fusa. “Fare le fusa”. Paroline amorose italianissime e irripetibili.
Aveva sete e adorava i Pink Floyd.
Ma più di ogni cosa amava il suo angolino di muro ammuffito, accanto al quale si accoccolava per ore a sognare un suo paradiso, fatto di nasi da addentare con garbo e di infiniti fiumi e cascate d’acqua fresca.
Non capivo perché mi avesse scelta, io che ero così opaca, stinta, che dentro di me senza osare parlarne vivevo decine di lutti che non erano i miei. Forse proprio quella muffa dell’anima la rassicurava.
Ce ne stavamo sedute sul balcone, immobili e ghiacciate in quel putrido febbraio di banlieue, muovendo solo le pupille per seguire la muta caduta della neve. Ero un po’ gatta anch’io: non sentivo il tempo, bloccato al di fuori del guscio ruvido e vuoto del PTSD. Il plaid sulle gambe, come in convalescenza, il posacenere pieno, l’animale ai piedi. Insieme attendevamo tempi migliori. Forse erano proprio quelli e non lo sapevamo.
Storie di gatti che finiscono
L’ultimo mattino, entrando, Lola scoprì le valigie sul pavimento. Si girò a interpellarmi, sbigottita, tradita, e scappò sulle scale del pianerottolo. Dall’alto della rampa mi osservò svuotare il monolocale delle ultime tracce della mia presenza, e anche della sua. La sua tazza era scomparsa.
Mi guardava di sbieco senza accettare la fine, con lo stesso rifiuto dell’evidenza che fu solo di Gloria Swanson alla fine di Viale del Tramonto. Anche la scalinata sembrava proprio la stessa, con un po’ di immaginazione.
“Hai visto, Lolà?” – sussurrò mellifluo il vicino, tenendo con una mano il portone, con l’altra la gatta – “Se ne vanno! Non potrai più dormire con loro”. C’era tutta la francesità del mondo in quel sadismo ultragentile.
La mia avvilita spiegazione dei fatti non convinse Lola, la quale sgaiottolò via dal cancello e cercò di infilarsi nel mio Uber, che mi avrebbe accompagnata al mio prossimo domicilio a scadenza. Dovettero riacchiapparla.
Nel mio nuovo monolocale ancora più ammuffito, Lola sarebbe stata benissimo. Lì fu un topo a testimoniare della mia improvvisa partenza.
Delle varie crepe del mio cuore, una ha un campanellino e si chiama Lola.
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