Chi cerca chi?
La prima volta che ho messo piede in un canile, a Milano, avevo quindici anni e con i miei genitori avevamo deciso di prendere un cane. Al tempo (erano gli anni Novanta) procurarsene uno era molto semplice: bastava presentarsi lì, avere un’aria rispettabile, dare un’occhiata agli ospiti, firmare qualche scartoffia, possibilmente fare una piccola donazione, e tornarsene a casa con il proprio quattrozampe nuovo di zecca.
Non dimenticherò mai il giro conoscitivo che ci fecero fare per il perimetro del cortile, lungo il quale erano disposti tutti i box ricavati dalla rete metallica. I cani che vi abitavano intuivano che noi umani venuti in visita eravamo forieri di qualcosa di bello; non capivano realmente cosa fosse, ma accorrevano ugualmente alla rete saltando su, abbaiando per farsi notare più dei compagni. “Bau, bau!”, “Guardami! Sono bello! Voglio venire con te!”, “No, io! Qui!”, “Anch’io! Sono così bravo!”, e via dicendo, senza fine.
Ovviamente mi squagliai alla vista della cagnolina che meno di tutti sembrava aver compreso il perché di quella giostra, e che pur agitando la coda e volendo partecipare se ne rimaneva dietro gli altri, intimidita dal suo stesso non capire. La portammo a casa e fu adorabile, sempre. Prima della scelta, però, era possibile chiedere ai volontari di aprire qualche box, per conoscere più da vicino i suoi residenti. Quella fu l’immagine che più mi è rimasta scolpita nella memoria.
Quel minuto di felicità
All’apertura, i cani del box selezionato (quattro o cinque al massimo) si precipitano fuori; non fanno nemmeno più caso a te, ma si mettono a correre velocissimi per il cortile, all’impazzata. Sanno per esperienza che, tempo pochi istanti, verranno rinchiusi di nuovo; allora corrono al massimo delle loro possibilità, come schegge, assaporando l’illusione di libertà. Corrono, corrono che quasi vanno a sbattere – contro un muro, contro una persona, quello che capita – ma non ci badano, per un attimo sono felici e respirano l’assenza di costrizione, la inalano a pieni polmoni e la inghiottono tutta. Fino al minuto successivo in cui vengono fatti rientrare, e la loro stasi ricomincia. Molti – belli, meno belli, giovani, meno giovani, “di razza” e non – campano così per anni: sospesi, interrotti, chiedendosi cosa sbagliano per non vincere mai un biglietto di uscita che intravedono essere portatore di una gioia speciale.
Cani nella torre d’avorio
L’anno scorso, in cerca del mio attuale cane, sono stata in un altro posto del genere nel Milanese. Piovicchiava, con un vento umido penetrante che sembrava anticipare lo scoramento che avremmo provato. Gli alloggi canini erano costituiti da una serie di mini-casette in mattoni sparpagliate per un grosso prato, collegate tra loro da sentierini in pietra; lo stile era simile a quello di alcune toilette pubbliche extraurbane ben riuscite. Ciascuna casetta conteneva fino a una decina di animali, tutti separati tra loro o al massimo in coppie; ma a noi visitatori non era permesso avvicinarli, perché a detta dei gestori si sarebbero stressati. Perciò bisognava guardarli relativamente da lontano (tre-quattro metri, quando andava bene), rimanendo sui sentierini e senza fare movimenti strani, potenzialmente allarmanti per questi esseri così sensibili. Altri cani erano in passeggiata qua e là, al guinzaglio, guidati da volontari che li facevano sgranchire; ma anche lì, dovevamo tenerci a debita distanza. A quanto pare erano tutti animali molto disagiati, che andavano abituati lentamente a qualsiasi novità.
Lì non ho trovato la cagnolina che speravo di incontrare, anche perché ancora più che incontrarli risultava difficile proprio vederli in maniera sufficiente; ma un’altra coppia ha riempito lo stesso il modulo per un bel cagnolone, ed è stato rincuorante. A un animale che esce da quel tipo di reclusione, ti verrebbe da chiedergli: ma cosa ci facevi lì? Tu che sei così bello, amoroso e meritevole, proprio come tutti gli altri? Perché esci solo adesso? E che ne sarà dei tuoi compagni? Torneranno mai a fidarsi di noi?
La parata dell’amore
Il terzo posto che ho visitato è quello da cui proviene la creatura che in questo momento, mentre scrivo, mi siede accanto a forma di ciambella, il muso appoggiato sul mio fianco, e che ogni tanto mi rivolge penetranti sguardi di un amore contemplativo e inesauribile.
Questo non era propriamente un canile pubblico, ma un rifugio privato di periferia, frequentatissimo da tenaci volontarie che andavano e venivano indaffarate. Una di loro ci ha guidati per il lungo corridoio, facendoci entrare in ogni box in cui ci fossero cani femmine e di taglia non enorme (i miei due unici requisiti per l’adozione). Qui i cani, tutti bellissimi nelle loro forme, colori e dimensioni, più che abbaiare o saltare energizzati cercavano coccole; si avvicinavano festanti, offrendo tenerezza e chiedendo in cambio carezze. Alcuni si mettevano proprio a pancia all’aria per ricevere qualche grattatina. Qualcun altro, più timoroso, non osava avvicinarsi, e tuttavia chiaramente moriva dalla voglia di prendere coraggio. Come sceglierne solo uno, e non un altro o un altro ancora? Sarà quello giusto? Mi amerà?
Sarai mio?
Al termine del giro, una volontaria anziana dall’aria mesta si è avvicinata, chiedendo: “Scusate, lo so che è una richiesta forte, ma una nostra collega è appena morta dopo una lunga malattia e i suoi due cagnolini sono tra quelli finiti qui. Mica potreste adottare loro?”. Ma al cuor non si comanda, e noi avevamo messo gli occhi su Petra. Una segugina tutta spettinata con due grossi biglioni d’ambra al posto degli occhi, che per giunta parevano truccati con la matita kajal. Tanto dolce e timida che nel conoscerci si era sottomessa appiattendosi a terra, livello da cui riusciva comunque a dispensare svariate leccatine. Un piccolo cane da caccia non era quello che avevo immaginato, ma l’incontro giusto nasce spesso da quella cosa lì, dall’inatteso.
Solo che gli anni Novanta sono ormai lontani, e questi posti hanno imparato a non affidare cani al primo che passa, malgrado il sovrannumero. Hanno visto troppe schifezze umane (gente che all’ultimo sparisce, gente che intende tenere il cane in maniera indegna, e persino chi dopo un po’ lo riporta indietro senza ragione) e ora ci vanno cauti. Gli interessati a un cane devono quindi compilare un questionario, fare un colloquio telefonico, talvolta anche mostrare le fotografie della propria casa per provare di poter offrire un contesto adatto. Per Petra, oltretutto, c’era già una famiglia interessata in valutazione. Avrei dovuto lottare, entrare in gara e sorpassarli.
La conquista
Ora, io sapevo bene che se avessi detto tutta la verità sui miei disagi mentali difficilmente qualcuno mi avrebbe affidato un animale – pur sbagliando, perché la mia bestiaccia ora fa la vita appagante che auguro a chiunque, ma è così che funziona là fuori. Perciò avrei dovuto mettercela tutta per riuscire in quella cosa che tra intimi chiamo la performance: cioè sembrare normale e assolutamente a mio agio in tutto. In gergo neurodivergente si dice anche masking. Mi sentivo enormemente sotto esame, anche perché le volontarie del posto avevano avvertito: “Attenti, la referente con cui parlerete ama mettere le persone alla prova, per vedere se lo vogliono davvero”. Ed era proprio il volerlo davvero ad agitarmi così. Un’ora interminabile di telefonata sudatissima con la volontaria per dire chi sono, che stile di vita ho, parlare di come l’Australia mi abbia cambiata, del mio amore per la natura e per le bestie; per raccontare di quante belle passeggiate avrei fatto fare a Petra, che ci ho il parco sotto casa, e per conversare in maniera spigliata di tutto e di più. Ce la dovevo fare!
E ce l’ho fatta. “Ma sì, sai che c’è? Mi hai convinta! Petra la daremo non a quegli altri, ma a voi due”. Mi sono riempita di orgoglio: ho ottenuto qualcosa – qualcuno – con la mia parlantina, fatto pazzesco e rarissimo. Io e Petra avevamo vinto.
Verso Casa
Tre giorni dopo siamo andati a prenderla. Per l’occasione l’avevano ben toelettata tutta, tosandole anche quella sua barbetta incolta che suggellava la sua aria randagia, per darle l’aspetto di una signorina di buona famiglia. Barba che poi ovviamente le abbiamo lasciato ricrescere senza più toccarla – che mica è un’umana. L’aspetto ordinato le è durato poche ore, poi è tornata se stessa: selvatica. Come me.
In auto, con i movimenti un po’ limitati dal suo cinturino di sicurezza, Petra si guardava in giro con gli occhioni d’ambra spalancati, senza capire dove fosse finita la buona signora che fino a quel momento era stata il suo punto di riferimento. Io sedevo dietro con lei per rassicurarla; mi saliva addosso con tutte le zampe e mi si appoggiava sopra, voleva guardare fuori dal finestrino. Un po’ per cercare la volontaria e un po’ per guardare avanti, verso la strada che la portava a casa, verso la novità di una vita che ripartiva. L’inizio della rinascita, per lei come per me.
Perché prendere un cane al canile
I canili sono tra le postazioni di trincea dove più si combatte l’entropia del mondo. Luoghi ancipiti, duplici. Da un lato, discariche piene di scarti dei gusti umani; serbatoi di quadrupedi non-giovani, non-sani, non-adatti, non-voluti, non-ritrovati. Ma al contempo, luoghi di raccolta di creature che, nonostante tutto, restano perfetti esemplari di bellezza, energia, gioventù, salute, fiducia, amore, vita. C’è tutto, ai canili. C’è anche il fatto che i cani li abbiamo creati noi, e continuiamo a crearli, a suon di millenni e incroci selezionati; e quindi che, se si vuole farne entrare uno nella propria vita, non resta che andare a cercarselo lì, volendo essere persone decenti.
Se state cercando un animale da prendere con voi, trovatelo nei canili, nei rifugi; magari ci metterete qualche momento in più rispetto all’entrare in un negozio che smercia animali e non farvi fare domande, ma sarà l’unico modo in cui sarete nel giusto.
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