Nell’emisfero australe, sentendo “Queenstown“, di solito il pensiero vola subito alla città della Nuova Zelanda. Ma ne esiste anche un’omonima australiana, nell’Ovest della Tasmania: una cittadina diversa, fatta di una pasta al contempo iperspecializzata e ultraselvatica, dalle grosse fibre integrali e tenaci. L’ho amata tanto, più del previsto.
I mille colori di Queenstown, Tasmania
Si tende a visualizzare la Tasmania in mille sfumature mentali di azzurro e di verde, e in inverno anche di bianco; Queenstown invece è arancione, come si prodiga di avvertire subito anche la Lonely Planet. È del colore del rame, scoperto in zona intorno al 1880, pochi anni dopo l’oro; del colore del dubbio e della riflessione del tramonto, ma anche del pragmatismo dell’alba. E irradia altre numerose squillanti tonalità, grazie alle nuove pitture a cielo aperto che la adornano.
Queenstown trattiene e mostra, tra vergogna e sfrontatezza, un altro lembo di storia dell’Australia, e un pochino anche della mia. È uno di quei luoghi in cui ci si sente ricondotti al nucleo di se stessi, nel bene e nel male.
A Queenstown, Tasmania, la turbina furiosa che mi ruota rumorosamente nel petto ha percepito degli ioni speciali nell’aria, che le hanno consentito di spegnere i motori e di mettersi per qualche attimo a riposo, inebriandosi di un passato e di un futuro operosi, e interrogandosi su un presente in sospensione. Come a dire: non ti preoccupare, niente è perfetto e molto è in rovina, ma nell’attesa di tempi migliori fermati pure un momento e guarda un po’ che colori, guarda cosa diventerà.
Un paesaggio cesellato dall’industria estrattiva
La vita della cittadina, come le colline e le montagne tutt’intorno, nacque con l’attività mineraria. Le tracce dell’industria estrattiva sono ovunque anche oggi che è rimasto poco di attivo, in mano a compagnie soprattutto indiane.
L’arancione e l’ocra sono quelli della terra disboscata per fare spazio alle faccende umane, una terra rimasta brulla ma che resiste con orgoglio; una terra grigia e giallastra scavata dall’erosione e dai fumi industriali, dalle piogge abbattutesi sulla sottrazione di alberi; una terra messa alla prova, che in parte offre ancora protezione e in parte, sfruttata, punisce e condanna; ma che in ogni caso mai si nega, e che ha in sé ancora tanti germogli.
Le case, che non celano le loro riparazioni e gli interventi sul tempo, sono quelle di gente che ha sempre lavorato sodo, che guardava alla sostanza; gente caparbia, resistente, ben disposta. Poi però, si sa, il mondo cambia. E cambia ancora, purtroppo o per fortuna.
Lungo la via principale in cerca di germogli
Uno spaesato e un po’ ammosciato Babbo Natale gonfiabile saluta da un balcone i pochi passanti che si aggirano lungo la via principale, esaminando una confraternita di attività commerciali molte delle quali hanno appeso le chiavi al chiodo. Le più baldanzose, non ancora svuotate degli arredi, già offrono se stesse in vendita. Dappertutto occhieggiano speranzosi numeri di telefono di contatto su fogli spiegazzati, appesi con scotch annerito ai vetri degli ex-negozi.
Eppure qualcosa si muove a Queenstown, Tasmania. L’aria deve mutare e saprà farlo. Un’automobile si ferma. Arrivano dei visitatori.
Per la mia notte di passaggio alloggio nell’hotel/pub storico centrale, dal nome e dallo stile molto british, l’Empire Hotel. Contenente: una regale scalinata doppia in legno scuro, patrimonio storico del National Trust; l’imponenza predatrice delle teste di cervo alle pareti; mobilio d’epoca e vecchie carte geografiche con borghi non ancora ideati; dettagli prima curati e poi lasciati invecchiare, quadri e suppellettili antiche.
Vestigia di un passato energico e fiducioso i cui pronipoti, oggi, si anestetizzano alle slot machines della sala accanto, dove il mellifluo erogatore di caffè gratuito ritarda il loro oblio mentre li separa dagli ultimi spiccioli della settimana. I più socialmente inseriti giocano a biliardo, bevono starnazzando da prima delle cinque del pomeriggio; alle nove e mezza sono ancora lì, pronti per fare chiusura. Forse una consolazione per non essere migrati altrove, a differenza di tanti altri. Oggi restano solo millesettecento abitanti; all’inizio del Novecento erano cinquemila.
Poco lontano sorge un grosso cinema ocra, attivo solo alcune sere, per ottimizzare le forze. Promette film belli, film d’essai, film che fanno pensare. Sono stupita di trovarlo qui, in mezzo al torpore. Invece scopro che ospita anche un festival.
Queenstown, Tasmania: un nuovo turismo
Dall’altro lato di quello che è indubbiamente l’incrocio urbano principale (all’angolo opposto sorge un grosso ristorante ancora aperto e con ottimo cibo – probabilmente anche l’unico, dopo la chiusura alle 17 di tutte le serrande ancora attive) sonnecchia la stazioncina, con annesso museo.
Oggi rappresenta uno dei due capolinea del Great Scenic Railway, un trenino d’epoca restaurato che congiunge Queenstown alla costa Ovest dell’isola (cioè con Strahan, una leziosa cittadina portuale sulla baia delle crociere). L’itinerario che attraversa la foresta pluviale sui binari pare che sia pazzesco, e sta riabilitando una zona a lungo ignorata dalle rotte turistiche (comprensibilmente: perché deviare per passare proprio di qui, quando il resto dell’isola è un sogno naturale e paesaggistico senza tempo?).
Un simile ruolo lo stanno avendo i tour che consentono visite alle miniere, alle segherie e alle recenti centrali idroelettriche della zona. Meritano, e completano la conoscenza del più freddo tra gli stati australiani.
Uno speciale orgoglio identitario
A Queenstown, numerose e rivendicate sono le tracce dell’orgoglio identitario industriale, disseminate qua e là in punti topografici che omaggiano il carattere e la dedizione di più generazioni verso i propri macchinari-simbionti. E sarà che il mio animale-totem, Lucy, è un’abilissima scavatrice artigliata che di giorno vive sottoterra, ma non posso che provare fascinazione per tutto ciò che ha a che fare con il sotterraneo. Perché a volte la terra che si ha sotto ai piedi è l’unica certezza su cui si può contare. Anche se a dire il vero nemmeno la Madre Terra semper certa est, come testimonia l’incendio alla miniera del 1912 nel quale morirono 42 operai, ai quali si disse addio con il funerale di massa più imponente di tutta l’Australia.
Queenstown, Tasmania, dalla cima
Ma qui si respira anche un orgoglio più ampio, quello della gente del posto unita contro le avversità e le forze ostili.
È il caso dello Spion Kop lookout, un punto di osservazione a 360 gradi, su una cima, che commemora vecchi tempi guerreschi, quando prima della Federazione che unificò l’Australia nel 1901 ogni stato del continente mandava autonomamente i propri soldati volontari in supporto delle truppe britanniche.
Un cannone sorveglia l’entrata ricostruita di una galleria ferroviaria e della bocca di una miniera; ma poi la piattaforma-belvedere più in alto ripulisce lo sguardo dalle nubi nere che si affacciano alla mente. Non solo terra, dunque, ma anche cielo, vento, e uccelli che se ne fanno traghettare, lungimiranti, guardando oltre.
Infatti a trionfare è una fierezza ancora più vasta: quella non solo australiana, ma umana e universale. Quella delle creature con cui il mondo è condiviso, gli animali che è toccato in sorte che popolassero questa zona e non altre, e che vengono omaggiati sui muri delle case e dei capannoni, dipinti con allegria e carattere.
Street art per una rinascita
È una street art che saluta dalle superfici più inattese, che vuole riaffermare la propria giovane esistenza, farla ammirare, farne parlare. L’orgoglio dell’individuo che, nonostante la decadenza e le difficoltà di adattamento, conserva uno spirito ben lungi dall’essersi estinto, ma che anzi proprio nell’andare avanti rinnovandosi ha ritrovato i propri colori.
Sta imparando ad esprimerli e a scoprire ciò che non gli aveva detto nessuno: che valgono la pena, che la gente ci sosta per guardarli meglio, che rendono quella realtà più interessante, speciale, laggiù in Tasmania. E così, da un po’ di tempo, a Queenstown oltre ai murales c’è anche una vera, rispettabilissima galleria d’arte nota anche oltre i confini della sua terra, che onora soprattutto incisioni e pitture ispirati ai paesaggi selvaggi della West Coast.
Un segreto panorama di smeraldo
L’immagine in cui questa strana natura locale si riflette più compiutamente si trova poco più in alto della città, tra i tornanti, al culmine di una stradina che conduce all’Iron Blow, una panoramica allegoria dei tempi che mutano.
Solo alla fine di una passerella a picco sul vuoto si rivela generosamente lo spettacolo nascosto: quello che era stata una ruvida cava a cielo aperto, a furia di riempirsi d’acqua piovana, oggi è un lago segreto che sembra riempito di smeraldi. Ed è una delle visioni più belle di tutta la Tasmania.
Ma è tempo di ripartire.
Per le vie semideserte di Queenstown, ho respirato quel senso di corrispondenza e di appartenenza che si sprigiona dai posti più impensati, in cui il nesso è lampante e possiede già una sua autocoscienza, ma aspetta che te ne accorga anche tu; e che allora per aiutarti ti accompagna a vagare per le sue strade, dove ancora in pochi ritengono interessante spingersi. Ti accoglie e ti si svela senza mentire, urlandoti le sue fratture e la sua voglia di rinascere – e a te fa l’effetto armonioso di un sussurro, di una carezza.
Ciao e grazie, Queenstown, Tasmania. Take care. Ci rivedremo e avremo entrambe più colore.
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