Due puntini opposti sul mappamondo. Tra Parigi e Port Arthur ci sono 17.303 chilometri di superficie terrestre. Bastano, per sentirsi al sicuro? Mi era sembrato. E invece.
Port Arthur, Tasmania: sito storico UNESCO e luogo di memoria
Port Arthur (che è in Tasmania, che è in Australia) è un luogo dove si va in visita da turisti, in giornata, per ammirare i resti di un passato fondatore. Si visita l’essenza della colonia penale, un’area sorta nel 1830 e ad oggi la meglio conservata di tutto il continente rosso, tanto da essere nominata patrimonio culturale dell’umanità dall’UNESCO.
Più che una prigione, si trattava di un’intera comunità. Era la nuova casa dei criminali più recidivi, “al sicuro” sulla penisola dell’isola dell’Isola; ma anche dimora di persone che poi ne uscivano riabilitate, skilled, con in tasca un nuovo mestiere imparato durante la detenzione.
Un luogo di castigo e di rieducazione che nel 1877 chiude e si trasforma in libera cittadina, dove da subito inizia anche il turismo.
Ancora oggi qui, nei vari resti di edifici tutti visitabili, si scrutano le ombre di ex-galeotti che lavoravano il legname per costruire un Paese; di ex-guardie, di un ex-ospedale, di un’ex-prigione speciale (un’innovazione che torturava i suoi migliori ospiti con il silenzio e l’isolamento); di ex-abitanti liberi, di ex-famiglie, di ex-uffici, di un ex-cimitero…
Cimitero. Mi fermo un attimo su questa parola.
La strage di Port Arthur, Tasmania, 1996
A Port Arthur, se non si è fortunati, ci si può sentire un po’ rincorsi dagli eventi. Tra due siepi, nella quiete di un giardinetto commemorativo timido e seminascosto per pudore, si intravede una targa, di cui le uniche parole che adesso riesco a ricordare sono:
Qui
Attentato
Aprile 1996
35 persone
Assassinate
19 persone
Ferite
In memoria
Déjà vu. Il mondo è piccolo, e non sempre mi piace. Leggo meglio la storia che c’è dietro.
In pratica, alla maggior parte delle persone normali capita di andare in visita a Port Arthur, sbocconcellare il proprio panino subito dopo il tour del sito storico, ciondolare per il negozietto di souvenir, accumulare dépliant, e tornarsene liberamente a casa. A qualcun altro invece succede anche che durante la gita, all’improvviso, sbuchi fuori un tizio armato di due fucili semi-automatici che si mette a far fuoco sulla gente. Così. Nel 1996, in pochi secondi, a Port Arthur decine di mondi vengono mandati all’aria, muoiono persino due bambine di tre e sei anni. Rimane la targa.
La scritta mi fa girare un po’ la testa, con l’orbita traballante tipica di quando un dettaglio mi risbatte in faccia tutta quella sera, quelle centinaia di occhi terrorizzati, quella fuga per la vita, quelle persone che non sono più, quella sorta di fratellanza amplificata che sentirò sempre verso chi ha vissuto la mia stessa imperdibile, simpaticissima experience ed è ancora tra noi per raccontarlo.
Rimango per un po’ nel giardinetto. Cerco di capire com’è che le cose succedono di qua, che tu ti volti di là, e che loro succedono pure là.
Com’è che ci sono in giro tanto odio e tanta instabilità psichica, e pure tante maledette armi? Il passato, l’imprigionamento, persino il lavoro coatto possono essere una cosa accettabile, ma la sparatoria o mass shooting no. Ovviamente. Nel massacro non esistono “condizioni umane”.
Ho solo un pensiero consolatorio: e non consiste in quello che ho imparato io a Port Arthur, bensì in ciò che da una strage così nera hanno imparato gli australiani.
La Storia che ritorna e insegna
Alla vista della targa mi dico: non è un caso, tutto torna. A Port Arthur ho visto ricomparire la Storia, tutta, individuale e collettiva. Sono venuta qui apposta perché è un historic site, il che ha ancora più valore in un continente nuovo nuovo, ancora vicino alle impostazioni di fabbrica, diremmo. Questa freschezza all’inizio è fantastica, si sta felici a godersi le palme e gli spazi immensi, il sole generoso e le possibilità e le passeggiate fiorite e ci si dimentica di ogni preoccupazione, di ogni radice che ci ricordi brutte cose. Però dopo un po’ manca qualcosa.
Quel qualcosa che ci dica che lì in quel punto c’è stato un prima. Che niente sorge dal nulla, che qualcosa ci lega al Tempo. Anche per questo si va a Port Arthur, per ricominciare ad imparare. Vale per i turisti come per i locali, per chiunque abbia bisogno di capire.
Perché la Storia è generosa e può insegnare in molti modi, se ce lo si merita. A me ha insegnato anche quanto segue.
Conseguenze di Port Arthur: le leggi australiane sulle armi da fuoco dopo il 1996
L’attentato di Port Arthur è stato il peggiore omicidio di massa di tutta l’Australia moderna. L’orrore di un continente scioccato, tramortito, che non aveva previsto niente di simile.
Come hanno reagito gli australiani? Dicendo “dobbiamo poterci difendere, diamo più armi a tutti”? No, per fortuna e per buon senso! Qualcuno ha ancora del sale in zucca.
Subito sono state introdotte forti restrizioni al possesso di armi. Tra cui: il divieto di vendita per corrispondenza, di possesso di armi semi-automatiche e fucili a pompa per i privati, l’obbligo di custodia dell’arma a chiave, di frequenza regolare (monitorata, oltre alla semplice iscrizione) a un poligono di tiro… Ma la cosa più bella, per la quale sono profondamente grata, è che la legittima difesa non è stata considerata una motivazione valida per ottenere una licenza di possesso d’arma. Tutte novità.
La fair Australia si è espressa.
E indovinate un po’? Da quella decisione, non ci sono più stati omicidi di massa per i due decenni successivi. Keine. Zero. Nada. Invece, nei due decenni precedenti alla strage di Port Arthur ce ne sono stati tredici. Molti, troppi anche i suicidi per arma da fuoco.
Dopo Port Arthur ci sono state amnistie per la riconsegna spontanea di armi non registrate (subito nel 1996, l’ultima nel 2017); e dei buyback (nel 1997 e nel 2003, con più di un milione di armi riacquistate dallo Stato).
Dal 1998 al 2005, le armi tenute nelle case e ufficialmente dichiarate sono declinate del 75%.
E, ripeto: niente più sparatorie e omicidi di massa. Non solo, ma tutte le morti per arma da fuoco sono nettamente calate.
Un mondo più sicuro
Gli australiani lo sanno e, giustamente, se ne vantano.
E me ne vanto anch’io, non perché sia australiana, ma perché ogni volta che qualcuno nel mondo fa qualcosa di intelligente mi viene un po’ da vantarmi, per quella fratellanza universale di cui sopra.
E così me ne vado in giro un po’ più tranquilla in questo mio nuovo continente d’adozione.
Un altro mondo è possibile! Che lo so, fa molto slogan del Mulino Bianco, ma concedetemi di essere incoraggiata da ciò che si muove nella giusta direzione.
♦ L’autore del massacro di Port Arthur è in prigione a Hobart, Tasmania, a scontare i suoi 35 ergastoli. Non ha il diritto di consultare qualsiasi contenuto dei media che riguardi la strage da lui compiuta. ♦
Clicca qui per il sito ufficiale del Port Arthur Historic Site, per pianificare una visita.
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