Immigrare in Australia in via definitiva è un processo lento e oneroso, che nel migliore dei casi fa sentire come bovini nel recinto preliminare alla mungitura. La tappa più disturbante è la visita medica obbligatoria. Ecco com’è andata la mia.
[Ultimo aggiornamento: 23/07/20]
La visita medica obbligatoria
Melbourne. Che non ci sia alcun feeling, è evidente già dallo sguardo coriaceo e inanimato della dottoressa-rettile, che ci attende sulla soglia dell’ambulatorio-gabbia.
Mi porge una mano bianchissima, che faccio per stringere solo per vederla sgranare gli occhi e arretrare sgomenta, col viso germanico tutto irrigidito. Credo di doverne ricavare che a me spetti offrire solo la mia cartellina medica, non il mio arto di Homo Sapiens bene educato e a sangue caldo.
Mentre io e la mia dolce metà, a turno, veniamo scrutati e auscultati, cerco di mettere a fuoco dove ho già visto ripetutamente quegli stivali neri alti alti, con i calzettoni fin su, e quel modello di gonna grigia, dritta e stretta. Poi mi sovviene: nei documentari sui nazisti. Di bene in meglio. Ma è solo nella mia testa – mi ripeto -, ho giusto l’immaginazione troppo vivida.
Pur contando sulla mia buona salute fisica, temo ugualmente la nostra inespressiva inquisitrice. La sospetto robotica come quel personaggio di Alien che a un certo punto impazzisce e si rivela un androide; e temo possa decidere che non le andiamo a genio, in quanto portatori di tessuti e fluidi umani, e di spedirci alle docce. È il culmine del lungo iter e del mio scetticismo. Ma presto saremo fuori, liberi di aggirarci per i verdeggianti pascoli australiani con un visto senza più data di scadenza, intonando un muggito di vittoria.
Nelle varie tappe del mio immigrare in Australia, i miei pensieri tornano sempre ad uno stesso posto, questo:
La suggestione più ovvia: Ellis Island, USA
Alla fine del 2015 ho visitato Ellis Island, Stati Uniti.
Ero ancora in piena dissociazione da stress post-traumatico per quello che mi era appena successo, perciò non ricordo quasi nulla di quei giorni in America. Solo un vento gelido che faceva pendant con il ghiaccio che avevo sulle emozioni; un’atmosfera di luci artificiali che come me non riuscivano a dormire; e una Statua della Libertà che si rifiutava di rispondere alle mie domande esistenziali. Eppure, sull’isoletta che ospita il più celebre Museo dell’Immigrazione del mondo mi sono emozionata eccome. Ho sentito come un senso di appartenenza.
Destino dell’emigrante
A quei tempi vivevo in Francia, ma già allora sentivo che prima o poi sarei finita a cercare fortuna più lontano, con modalità più impegnative di quelle con cui ci si sposta dentro l’area Schengen. Per questo ero ancora più incuriosita dalle vicende, per così dire, dei precursori.
E poi, in Italia si è sempre fatto un gran vociare contro le nuove persone che arrivano; io invece volevo tenerlo ben presente che i nostri antenati erano stati anche loro quelli che un bel giorno, da qualche parte, appena arrivati venivano spulciati, censiti, convogliati.
Leggere ad esempio di certe donne sbarcate ad Ellis Island sole e senza parenti, e dunque costrette a sposarsi con qualcuno, finanche un tizio a caso direttamente lì sull’isola, per poter entrare negli States, mi avrebbe fatto piuttosto ridere, se solo non fosse stato vero.
Immigrare in Australia, come funziona: le tappe
Al contrario, il mio ingresso in Australia è avvenuto da privilegiata (ne parlavo qui). Bianca, caucasica, in coppia, con un buono sponsor, un buon passaporto, la certificazione linguistica. Normalità non scontata, soprattutto oggi. Non proprio come un capo di bestiame col pedigree, ma quasi.
Ma come si converte il visto da temporaneo a permanente?
In primis, ci si deve allenare con pazienza per il test di volontà. Questo perché la malefica burocrazia governativa australiana compie tutto quanto in suo potere per scoraggiare i richiedenti. Come se non fossero nati proprio così, gli australiani di oggi: un minestrone con gli ortaggi importati e il prezzo del discount.
Eppure già da quando il Paese era ancora in fasce, comparve la norma paradossale del literacy test: un test linguistico, che consisteva in un dettato in una qualunque tra le lingue europee. Quindi già era molto difficile così; ma se invece che europe eri, mettiamo, cinese, altro che immigrare in Australia: non potevi neanche attaccarti al tram perché non era ancora stato costruito, e te ne restavi direttamene a casa.
Oggi le cose non stanno più proprio così, e nemmeno come a Ellis Island quando ci si metteva in fila per il controllo dei pidocchi; ma una certa rassegnata attesa bovina va comunque messa in conto.
Nell’Australia odierna, per restare a tempo indeterminato non conta chi siete e cosa volete, ma solo ciò che avete da offrire. Perché a quanto pare non siamo pensieri, idee, amori, visioni del mondo; a quanto pare siamo carne e sangue, da cui la visita medica. E secondariamente, anche portafogli da spolpare. Un bel business.
Immigrare in Australia: domande, spiegazioni, soldi
Infatti, al povero richiedente tocca elargire enormi forchettate di fatti propri su decine di moduli, chiedendosi perché mai abbia osato uscire dall’utero materno se poi tutto si rivela questa mastodontica fatica.
La propria vita va dettagliata con cura, incluso dove si è abitato tra la primavera del 1985 e l’inverno del 1991 e perché si è stati inoccupati per un mese nel più recente 2004. Solo per ricostruire tutti i miei cambi di domicilio a Parigi ci ho messo due sere, chiedendomi: il monolocale col topo conta come domicilio? E l’hotel de passe col bagno sul pianerottolo e la fermata del bus praticamente dentro la stanza, in cui sono stata due settimane? Devo dichiararli?
Quanto all’Italia, che per dare alcune risposte avrei dovuto spiegare dall’inizio come funziona il Bel Paese, e il perché di tante cose che uno ha fatto e che non risultano da nessuna parte. Mestizia.
Nel frattempo occorre aver richiesto, ricevuto dall’Europa e fatto tradurre i certificati giudiziari comprovanti che non si è delinquenti (o che almeno non ci si è fatti scoprire!); dopodiché si paga, tanti, tanti dollari, l’estrema beffa dato che già alla richiesta del visto si gettano al vento 3700 gocce di sangue a persona.
Infine si accede alla famigerata visita medica, quando ormai non ci si ricorda nemmeno più il perché lo si sta facendo e si sarebbe disposti ad entrare in criogenesi pur di finirla lì.
La salute prima di tutto!
L’ultima tappa è dunque l’ambulatorio, dove per combattere l’angoscia da vivisezione visualizzo me stessa come una mucca che si dirige alla conta. Appena qualcosa mi infastidisce, muggisco interiormente in segno di protesta.
Insieme ad A. mi faccio largo tra filippini e malesiani disagiati quanto noi. Ci viene chiesto se vogliamo un medico donna, uomo, più eventualmente un interprete o uno chaperon (l’avrei voluto solo per il nome!). Entriamo insieme, come family. Armadietto, spogliatoio, camice ospedaliero azzurro, attesa, spersonalizzazione. Stringo la sua mano per assicurarmi che siamo ancora io e lui, due individui, due storie, al di là del numerino.
Il censimento bovino dura un’ora. Lastra al torace, pipì nel barattolo, no non sono incinta, sì so cos’è l’HIV, prego prenda pure il mio sangue, faccia pure come se non ci fossi. Muuuuu! Poi ovviamente la pesa dei bovini, la misurazione, la pressione, le letterine piccole piccole da leggere, “H-N-X-O-D-Z” (M-U-U-U-U!). Ormai sono persino pronta a mettermi a parlare in russo o a intonare Cristina D’Avena, qualunque cosa purché la smettano di studiarmi. E infine questa dottoressa-rettile, che quando distribuivano l’empatia, lei quel giorno era andata a farsi la plastica facciale per diventare totalmente asettica.
Mi esamina, mi palpa, mi tocchiccia qua e là come se stesse studiando una cesta della frutta finta. “Hai mai sofferto di questo? E di quest’altro? Sei mai stata in psichiatria?”
Eccoci. Come glielo spiego il perché sono stata al pronto soccorso psichiatrico? Perché a scriverlo sto imparando, ma a dirlo agli sconosciuti ancora no. “Dai, marchiami e facciamola finita”, penso mentre racconto riluttante di Parigi e del mio farmaco. Lei fa “oh”, vuole sapere se sarò un peso per la società. “Ma hai pensieri suicidi?” “Hai fantasie di farti del male?” Muggisco forte e dico no, con lo stesso entusiasmo posticcio di quando stai atterrando negli USA e devi barrare NO, non ho affiliazioni col nazismo, non sono mai stato coinvolto in operazioni di genocidio. Dico no, dunque; ma non so bene se invece, per errore, non abbia piuttosto muggito ad alta voce e detto “no” nella mente.
Usciamo di lì che sono le tre del pomeriggio e ce ne andiamo direttamente a bere per dimenticare. Chissà poi se i 3700 dollari a testa serviranno: la richiesta del visto per immigrare in Australia può anche venire rifiutata, non si sa mai, e i soldi mica li ridanno indietro. Astuti!
Ma io oggi sono ottimista e perciò lo scrivo: se tutto va bene, tra una manciata di mesi non dovrò più preoccuparmi di non poter restare sempre qui con Lucy.
Qualche altro ricordo di Ellis Island:
(Tutte le foto di questo post le ho scattate al Visitor Centre di Ellis Island, con un telefono sfocato quanto le mie percezioni di allora. Sorry!)
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