Andare a Parigi è facile.
La prima volta avevo 20 anni, 20 euro sulla Postepay con cui prenotai il mio primo volo Ryanair in solitaria – nei bei tempi andati in cui ancora in pochi sapevano che si potesse viaggiare con così poco –, e i postumi di una delusione d’amore. Avevo ancora il fisico e la libertà di cuore e di spirito per prenotarmi un posto letto in ostello, girovagare tutto il giorno qua e là, fare pipì accovacciata dietro le macchine, vedere tutto ciò che avevo sempre sognato di vedere e piangere di commozione (quanto è difficile piangere di commozione dopo i trent’anni? Accade, certo, ma non così di frequente).
Era ancora l’età per pranzare seduta sul marciapiede (spero non quello dove qualche altra mia simile aveva precedentemente urinato) col paté della sottomarca del discount malamente spalmato sulla baguette, e per fare merenda sugli Champs-Élysées (cosa che nessun parigino si sognerebbe mai di fare). L’età per andare sulle tracce delle location dell’Ultimo Tango, per farmi invitare a cena da sconosciuti (prima di Tinder e dei social), per arrampicarmi sul mio letto a castello la sera e ridiscenderne fresca come una rosa il mattino dopo, pronta a ripetere l’operazione.
Restarci, a Parigi, è più difficile. Devi aggrappartici con le unghie e coi denti per non esserne estromesso impietosamente. La tua volontà non deve vacillare mai, altrimenti è finita, e in men che non si dica ti ritrovi in una villetta a schiera in Costa Azzurra ad apostrofare i viaggiatori diretti a nord: “Fuggite, sciocchi!”. Però io sento di avercela fatta, di aver superato stoicamente le prove, e adesso mi pavoneggio in giro (anche troppo, nostalgia canaglia, perdonatemi!) dicendo non solo che ho vissuto a Parigi, ma soprattutto: che ci ho abitato. Chi conosce la fatica dell’impresa comprende.
E forse, per via degli svariati tetti che ho avuto sulla testa e della variegata schiera di umani che me li hanno concessi, in un anno e mezzo ho conosciuto la mia città del cuore come altrimenti non avrei mai potuto sperare di fare.
L’inizio
Dopo svariati passaggi da turista, un pomeriggio già buio dell’autunno 2015 salgo su un pullman a Milano con la mia valigia piena di libri e ne scendo 14 ore dopo, all’alba, alla Gare de Bercy (suggerimento: non fatelo. Non importa quanti soldi potreste risparmiare con quei maledetti pullman. Rinunciate piuttosto a qualche cena fuori, e guadagnateci in salute mentale e varicosa. Prendete l’aereo o il treno, e per il bagaglio speditevi un paio di pacchi. Davvero).
Sarò una studentessa adulta con borsa di studio e un soggetto bellissimo da studiare, pronta a fare una vita tranquilla e abitudinaria nella città più bella del mondo. What else?
Risposta: no, non un attentato al Bataclan (tsk tsk!), bensì il malvagio, derisorio mondo della location parigina.
Ripercorrerò per tappe le sbigottite circonvoluzioni del mio disagio abitativo, sia per esorcizzarle, sia per non dimenticare, e tenere ben presente che dopo una cosa del genere posso andare ovunque.
E anche perché chi mi legge e sogna Parigi senza conoscerla, e non è ricco, deve sapere a cosa va incontro, nel bene e nel male.
Oh, e anche per Lucy, il mio wombat, che ancora si domanda cosa ci faccio in Australia e da dove vengo.
[Continua prossimamente. Il disagio va diluito!]
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