Serviva la mia firma, fatta con tutta la mano attaccata. E quindi non potendo tagliarmi la mano e spedirla, via di nuovo su un aereo per un tempo interminabile. Forse è lì che appartengo: sola, lassù, nel non-luogo, senza connessione alcuna, a sussistere e attendere, consumando provviste, con le cuffie a illudermi che non ci sia rumore di fondo. Così sono stata per tutto il mese precedente, anche prima di sedere anchilosata sull’aereo, già dalla comodità uterina del mio divano australiano. E infatti sull’aereo ci sto con naturalezza, la stessa con cui ci angoscio e ci peno, come in cielo così in terra.
E insomma pare io abbia questa cosa con la D.
“Si vede da come scrivi”, annuisce una persona che mi legge sia qui sia in carne ed ossa. Nessuno pare troppo stupito. Ho ricostruito un po’ di cose e ne ho inferito che dev’essere così da molto tempo, a sprazzi. Sono persino un po’ sollevata di sapere con chi convivo, invece di considerarmi giusto quella un po’ esotica, e di domandarmi perché ogni tanto conquisto il mondo e ogni tanto mi inabisso. E soprattutto realizzo che l’apocalisse parigino c’entra fino a un certo punto; D. già c’era, da prima. Ma naturalmente è proprio quando impari a destreggiarti che arriva la mazzata, quella bella, cinematografica. Amen.
Considerazioni post-atterraggio:
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Abituarsi a fare la spola tra i due lati del globo è figo, ma anche alienante. Il rischio di dirsi “tutto qui?”, e di sentire fortissimo il peso dei limiti di questa sfera di acqua e zolle è dietro l’angolo, e dopodiché sì che son cazzi.
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Un mondo in cui non bisogna stare tutto il tempo a sconvolgersi di quanto le proprie persone preferite siano vicine, è un mondo bellissimo. Prendi un treno e vai qua. Ne prendi un altro e vai là. Abbracci e mesi di vita recuperati in un attimo, calore, connessione e dialogo vivificante. E voi che non ve ne rendete conto, abituati come siete, beati voi.
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Accettare di essere amati e benvoluti può non riuscire in automatico. Mentre le mie amiche mi stringono forte e sorridiamo galvanizzate, mi domando “perché?”. Perché queste persone mi vogliono bene? Cosa ho fatto? Cosa ci trovano in me, perché io, che non ho niente da dire, che voglio solo stare? Ma so che a parlare è colei, D. Sto imparando a pensare a due, io e lei, e a sapere che ogni tanto possiamo divergere – e che in tal caso ho ragione io, non lei. Lei mente. Lei è la nebbia, io sotto sono il sole, e scintillo sempre, anche se ogni tanto non si vede.
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Il corpo, a volte, semplicemente si rifiuta. Sale abbronzato di qua, scende imbacuccato di là, e non fa in tempo a fiatare uno “WTF??” che si becca un malanno, con tanto di taaac! milanese. Si piglia tutti i bacilli che ci sono in giro e un’intossicazione alimentare, e forse è un bene, così almeno gli è concesso di mettersi un attimo a riposo.
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Mentre realizzo che i saltelli di gioia, quelli veri, me li hanno procurati la vista dei fiocchi di neve e l’ottenimento dell’agognato appuntamento con la psichiatra, mi rassicuro sul mio humour nero ancora presente all’appello. Perché quando non vuoi ridere di niente, puoi sempre ridere del degrado e sarà bello lo stesso.
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Esiste il vino del Milanese Imbruttito. Eccolo qua. Taaac!
Tra un bacillo e l’altro metto la famosa firma, e così vendo la mia casetta, che ormai non serve più. Il giorno prima passo a salutare le sue pareti, quei due locali tutti colorati come me, che ho trasformato decine di volte insieme alla mia forma mentis, che negli anni ho affittato a cani e porci per potermene andare qua e là a esplorare. Il mio cervello anestetico lascia infiltrarsi solo poche immagini di un decennio allo sbaraglio, passato a guardare sempre avanti, e mi sento un passettino più vicina all’aldilà. Alzo le spalle e guardo ancora più avanti. Le case sono solo un contenitore. I colori sono nello spirito, prima ancora che sui muri.
Al di là dell’altalenanza tra i colori e il grigio, c’è però un punto fermo, una conclusione candida: Milano. Basta da sola a tenermi su. Con la neve, ma anche senza. Con la sua gente, il suo accento imbruttito. I suoi tram, la sua veloce eleganza, la sua misura d’uomo, le sue possibilità e funzionalità. Milano è spettacolare, e mi commuove; è la cosa più bella che mi sia mai capitata. Sia santificato il suo nome.
Dentro Milano, in questi giorni, succede una cosa: mi ricompongo. Ricucio uno strappo. Ritrovo le mie vecchie cose, i miei vecchi luoghi, mi reintegro. E non ha prezzo. Non mi sento più quella sradicata, sbattuta di qua e di là per fasi, ma riscopro me stessa anche nel tempo, al di là di ogni sfasamento orario. Quel benessere di quando sei bambina, che se l’hai avuto poi ti sorregge sempre.
Ed è a questo benessere che mi aggrappo per affrontare il disagio del mondo che gira – l’entropia, altre case che conosco da sempre che adesso trasudano segni di cedimento emotivo, aneddoti confidati solo a me che radono a zero il mio orizzonte polarizzato di Bene e Male. Questo benessere mi fa da appiglio nel constatare che ce n’è per tutti (e che forse ci si ritrova nella stessa orbita non per caso). Che se io ho D., in giro c’è pure tutto il resto dell’alfabeto, ma non per questo avrò meno amore da dare. Che l’arte imita la vita, decisamente, e non viceversa. Che essere adulti è questa roba qua, l’è inscì.
Qualcuno dall’appartamento di sopra si esercita col flauto. I fiocchi cadono docili. Vado a prendere un treno per abbracciare altri umani adorati. Rideremo tantissimo, soprattutto del degrado. Guardo il soffitto della Stazione Centrale a testa in su, come se lo vedessi per la prima volta, come un’australiana in vacanza, ma con in più una storia e un cuore più rosso.
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