“Ma proprio in Australia?!?” – mi chiedevano tutti, tra entusiasmo e anticipazione della nostalgia.
È stato un caso, un clinamen. Non eravamo due che sognavano di vivere tra le palme nella terra dei canguri, o che avevano un parente o un amico che li avesse preceduti. Non sapevamo niente, non conoscevamo nessuno. Io non ci avevo mai messo piede prima, lui solo per brevissimo tempo.
Ma una sera, senza un suono, gli atomi nella loro eterna caduta nel vuoto in linea retta hanno deviato, e si sono inclinati verso il continente rosso, così, senza una necessità interna, solo perché potevano.
Emigrare in Australia per caso
Improvvisamente c’erano una chiamata e un visto: classe 457, skilled workers, quegli stranieri onorevolmente chiamati dall’estero per sopperire a una mancanza di indigeni qualificati. C’erano un posto di lavoro per lui, il migliore che avesse mai avuto, e varie possibilità per me. C’erano un futuro quando non ci credevamo più, una stabilità quando ce l’eravamo dimenticata. C’era una lingua che avremmo solo dovuto perfezionare, e non impararla da zero; contornata da altre che già parlavamo e che ci avrebbero sorretti, connessi, estesi. C’era un’opportunità ineguagliabile. E c’erano persino due omini che ci sarebbero venuti a casa a impacchettare tutte le nostre cose, e dopo qualche settimana di navigata transoceanica le nostre cose ci avrebbero bussato alla porta dall’altra parte. Tutto spesato, come anche il volo di sola andata su cui salire. Emigrare in Australia con la Relocation, si dice.
Cosa fai, ci sputi sopra? No, benedici il clinamen, saluti tutti, prendi e vai. Provi e vedi.
“Per vedere cosa succede”
Anni fa partecipai a un seminario teatrale un po’ hippy, in ritiro in una baita isolata, dove avremmo fatto strani esperimenti recitativi. Un questionario iniziale, tra le varie cose, ci chiedeva “Perché sei venuto qui oggi?”. Io come molti altri mi lanciai in una tirata seria seria sulle nuove esperienze, l’approfondimento, la conoscenza di sé e bla bla bla. Un’altra ragazza invece scrisse solo “Per vedere cosa succedeva”. La trovai ermeticamente superficiale (oltre che tecnicamente scorretta) e la detestai, credendo che se la tirasse, che non rivelasse nulla di sé. Oggi penso che fosse la risposta migliore, avanti anni luce. Una lucida sintesi di ottimismo e determinazione, senza disconoscimento del proprio passato, delle proprie radici.
E quindi quando è stato il mio momento sono partita per vedere cosa succedeva, per capire dove andavano ad atterrare questi atomi deviati.
Emigrare in Australia per curiosità
La decisione è stata immediata, avendomi il tempo resa una di quelle persone che subito si adattano ovunque. Che ogni volta che viaggiano e dormono in un nuovo posto, dal giorno dopo parlano di “casa” per riferirsi ad esso: “Andiamo a casa”. Perché home is wherever, che è anche il motto di Lucy, il mio wombat. Vado dappertutto sin da quando sono diventata abbastanza grande per ribellarmi a una madre che non me lo permetteva, con quel suo mantra imprigionante “è prematuro” che impediva o tracciava ogni mio movimento. E guarda il risultato. Saluti e baci dagli antipodi.
E così non ho fatto una piega e ho iniziato a pensare a cosa mettere in valigia. Appena arrivata down under, mi sono iscritta all’AIRE e mi sono sentita un po’ più al sicuro, lontana e con un riconoscimento, perché da così lontano avrei potuto anche votare. Ho tirato un sospiro di sollievo, e ho iniziato a fare cose e a scoprire questo misterioso Lucky Country. Da allora sono passati sei mesi.
Ma è andata davvero così liscia? Sul serio? Uhm.
Vecchio e nuovo
Sorvolerò sia il tipico discorso sugli aspetti sì e no dell’emigrare in Australia, della serie in cui è cool perché ci sono il surf e gli ornitorinchi e uncool perché mancano la burrata e la bottarga; sia il livello successivo della diatriba, quello dell’ovvia e pungente questione della lontananza, dagli affetti e da ogni sorta di familiarità. I soliti temi intorno alla duplice condizione di emigrato/immigrato sono noti, anticipabili, e vanno accettati per quello che sono, argomenti classici e come tali ineludibili, e tuttavia gestibili.
Invece, anche quando tutto sembra andare alla grande, c’è qualcosa di più profondo, sotterraneo, che sta al di là dei sì e dei no, dei cool e degli uncool, e che se non ci stai attento cerca di sabotarti. Prima o poi devi farci i conti, perché da questo dipende la riuscita del tuo nuovo insediamento – di certo ben più degli ornitorinchi o dell’assenza della bottarga, delle iniziali figuracce con chi parla un accento troppo stretto o del poterti permettere agevolmente un weekend a Sydney; ma anche più del visto 457, del diritto di voto, della stabilità e del futuro. E persino più di chi ti ama e ti manca da starci male.
Sono le radici.
L’importanza delle radici
Ci sono le radici sane, che tengono su la pianta anche quando la trapianti; ma anche quelle cattive, maligne, che stanno lì per puro capriccio, ostinazione, per senso di mancanza di alternative, per restare attaccate a qualcosa che non arrivano davvero a voler cambiare. Sono radici che la pianta, invece di sorreggerla, la tirano giù. Che non le permettono di espandersi in tutta la sua ampiezza. Che pur pensando “Oh sì, non male questo giardino nuovo”, con lo spirito continuano a visualizzarsi in quello precedente. Radici che si impuntano perché loro vogliono solo quel nutrimento a cui erano abituate, e se anche ora nel terreno ce ne sono altri di qualità non li assorbono, li rifiutano, e si adoperano per fare avvizzire tutta la baracca.
Quel che è peggio è che certe radici non sai a quale dei due generi appartengano, oppure appartengono a entrambi. E finché non te ne occupi, e non prendi in mano una vanga e una cesoia, rischiano di tenerti ancorata alla terra precedente più di ogni altra cosa, e a impedirti di fiorire. E nessuno è da incolpare per questo, non quello che le radici rappresentano, ma solo te stessa e il tuo modo di sentire – come se il sentire, in qualunque caso, fosse poi una colpa.
Radici sane e malsane
Le mie radici sane stanno in Italia. Nei lastroni di piazza Duomo e nei mosaici della Galleria Vittorio Emanuele, in un pub sgangherato sulla circonvallazione, nella biblioteca rionale, sul tappeto di casa della mia migliore amica; ma stanno anche in Piemonte, in Abruzzo, e più giù, ovunque ci sia una persona amata che porto sempre con me e un tetto pronto ad accogliermi.
Invece le mie radici nocive (e non avrei mai immaginato di dirlo, ma è necessario) stanno a Parigi. Partono dal suolo, da una sala concerti, anzi da sopra, dal suo tetto; scendono giù nel métro e penetrano fino alle catacombe, di cui portano con sé visioni ridondanti. Sono luoghi e modi di vita, ma soprattutto persone, in cui a volte continuo a credere più di quel che sarebbe opportuno, su cui conto nella maniera sbagliata. Che dovrei lasciare andare, almeno un po’, su cui converrebbe allentare la presa; perché il loro ricordo mi inchioda a un passato impedendomi di vivere davvero il qui e ora.
Emigrare in Australia: germogli
Il loro è un intero mondo che ho idealizzato, forse per sopravvivere quando era il momento di aggrapparmi a qualcosa, ma che ora è più che altro una fantasia, sono ricordi che evaporano e parole volatili scambiate attraverso uno schermo, a cui do un peso che non sempre hanno, e che oggi mi trattengono e mi ostacolano. Perché le radici, se non stai attento, possono rivelarsi l’opposto di ciò per cui sono fatte: catene sterili che ti tirano verso il basso, che invece di nutrirti ti inaridiscono, ti tolgono ogni curiosità, ogni desiderio di incidenza sul presente, e questo è male.
E così, mentre me ne vado spensierata sotto il sole cocente di febbraio, col mio monopattino comprato a Parigi, a innaffiare quel pezzettino di terra australiana che ho appena preso in gestione, domandandomi se le mie nuove piantine metteranno radici, ci rifletto e mi ripeto: let go, let go, let go. Intravedo un germoglio. E sorrido un po’ di più.
Ci sono radici che vanno accorciate perché altre possano nascere. It’s that simple.
Per vedere cosa succede.
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