Via
Coronando il sogno di affrancamento dalle cose capovolte, prendevo il volo da un aeroporto semi-fantasma, svuotato dal pugno duro isolazionista australiano. Ingoiavo sonniferi inseguendo uno stato incosciente, per solcare l’etere a tutta velocità senza sentire le membra ribellarsi; e al risveglio, dietro le mie ciglia insonnolite, il mondo era di nuovo diritto. Ventisette ore per passare da un appartamento al rovescio con l’aria condizionata a un altro a testa in su con il riscaldamento, entrambi chiamati casa dal primo giorno. Flap flap. Nidi.
Adesso apro gli occhi all’ora giusta, riscossa da una fase onirica durata quasi quattro anni. Su un mappamondo gonfiabile un po’ ammosciato guardo l’Australia starsene laggiù in castigo e non mi capacito: l’ho fatto davvero, ci ho vissuto, è successo a me. Per caso, come tutte le cose più determinanti, nel bene e nel male. Dovrò farci i conti. E ora tocca chiedermi chi sono, cosa sono diventata e cosa rimane, al di là di una piuma della mia amica calopsitta custodita in un cassetto.
Riassestamento
Scrivo messaggi, e le persone mi rispondono in tempo reale. Non abito più nel futuro. La notte non dormo solo io; dormono tutti, alla stessa ora, come gli uccelli sui rami. Accettare la normalità è la prossima sfida. Nessuno capirà mai del tutto, tranne uno i cui pensieri sono ormai fusi nei miei. Lo saranno anche d’ora in poi?
Tornano anche i ritmi accelerati e onnipotenti dell’emisfero che conta. Fuori dalla finestra il ronzio delle auto non si ferma nemmeno di notte. È sempre stato così, qui, sul serio? Conto gli innumerevoli camion gialli dell’Esselunga che scorrono sulla tangenziale, sacre icone alimentari che mi recapitano a casa il basilico, le trenette, il comfort, il vino buono, i pomodori finalmente con un sapore, l’orgoglio. Non posso uscire per quattordici giorni, e va benissimo così – buttarmi subito nel mondo vero sarebbe troppo. Faccio telefonate burocratiche e riprendo un’identità, riascoltando la mia vera voce accingersi a esistere di nuovo.
Attese
Milano mi accoglie come sempre, culla e riparo, nutrice e amica fidata, ma stavolta ne sono intimidita. L’isolamento fiduciario obbligatorio sta finendo e un po’ me la faccio sotto. Saprò attraversare la città senza attacchi d’ansia? Sosterrò la folla? Come si maneggia il contante? Ci sarà spazio per la mia giacca tigrata fiammante, in mezzo a una popolazione tutta in panni scuri? Sbaglierò strada? Sembrerò una boomer? Will I fit? Succederà come al ritorno da Parigi, quando i commessi dei negozi approcciavano i miei sorrisi disabituati e la mia diffidenza sospesa con un “Ciao cara, parli italiano?”?
Al pomeriggio, l’accento locale delle chiacchiere dei ragazzini mi raggiunge dai giardini direttamente dentro casa, come un lampo acuto. Mi sorpassa le orecchie e penetra dritto in una zona insolita, più intima, del cervello. Il suono del citofono dei corrieri mi costa qualche secondo di esitazione. Cosa si risponde? Come si saluta? **Non dire ‘Hello’, ti prego, niente cose freak**.
Domande
L’omogeneo freddo pandemico padano trabocca di nebbia morale. Alberi scarnificati, e una luce tenue quanto il cinguettare dei passeri. Qualche sporadico “cip!” in lontananza, e basta. Dove sono gli stormi di lorichetti arcobaleno, che illuminavano il mio cielo della sera con i loro discorsi senza fine? Dov’è la speranza di avvistare un cacatua prima della pioggia? Dove sono tutte le creature che erano un po’ mie, come stanno? Come farò senza di loro, che sono parte di me?
Dov’è quel sole sfrontato che mi scaldava fin nelle ossa, quei raggi estesi e sconfinati? Riuscirò a conservarne traccia nella mia anima? Saprò mantenere accesa un po’ di quella me?
Dov’è quel giudizio in bianco e nero, che divide il mondo in buono e cattivo, che rende le transizioni tanto semplici? Dov’è chi mi dirà “E allora potevi restartene lì”? Dove sono l’armonia e la pace di chi vive tutta la vita in uno stesso posto e non cambierebbe? O la rassegnazione di chi non può ancora migrare, o non può più? E la differenza tra il custodire, come domanda fondante, un “perché?” e un “perché no”?
Infine, dov’è un plot twist, un guizzo di trama?
Nuove rotte
Quello c’è. Quella stessa me che a Melbourne, mentre chiudeva le ultime valigie, piangeva di gioia allo stesso modo in cui Uma Thurman, ucciso finalmente Bill, singhiozzava di liberazione e sollievo sul pavimento del bagno; quella stessa eppure già diversa persona, appena riapprodata in terra italica e ancora insolitamente abbronzata, non paga della sua emancipazione dalle faccende australi sta per ripartire, di nuovo. Altrove. Su al Nord, in un posto sconosciuto. Opposto. Per un po’. E non con felicità: di più.
Australia mia, rimarrai per sempre nei miei passi e nei miei occhi. Ridente e contraddittoria, odiata e amata, temporanea e definitiva. Mi hai insegnato, mi hai curata, mi hai quasi uccisa, mi hai fatto regali; mi hai tenuta ostaggio e poi mi hai restituita alla vita, lasciandomi andare nel migliore dei modi, appena in tempo. Sei esistita davvero?
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