La depressione (vera), spiegata a chi non l’ha mai incontrata. Assistenti speciali: una creatura australiana timida e sottomarina, e un noto cattivo cinematografico.
Per l’accessoria e amena rubrica “disagio mentale” ci eravamo lasciati con un ospite d’eccezione, lo stress post-traumatico o PTSD. Un disturbo irrequieto e turbolento ma dall’aria perbene, di buona famiglia, che avevo cercato di raccontare sulla base della mia esperienza.
Se avessi dovuto scegliere una bestia delle mie parti per rappresentarlo, com’è un po’ consuetudine su questo blog, avrebbe senz’altro vinto la seppia gigante, l’animale marino dalla personalità così instabile da cambiare colore, e persino forma e consistenza, a ogni piè sospinto, e che per galleggiare usa un osso. Perché col PTSD è un po’ così: sei insieme tutti quanti e non sei più nessuno, e le ossa ti mandano su e giù. Da sfiancarsi.
Ma questa per me è acqua (quasi) passata. È stato un oceano fa, diciamo. Sono al next level, sconfitto il quale presumo che diventi tutto, o almeno molto, in discesa, e che trovare il Santo Graal sembri un giochetto da “vado e torno”.
Perché il PTSD è feccia, ma oggi penso a lui come a un tenero cucciolo relativamente inoffensivo rispetto alla sua cugina più grande, assai più malvagia e nefasta: la depressione. Perché col PTSD vuoi ancora vivere, e pure parecchio. Vuoi fare cose, e pure troppe. Con la depressione no. Non vuoi più nulla.
Perché voglio raccontare della depressione?
- Per lo stesso motivo per cui i primi ominidi, alla scoperta del fuoco e senza sapere che si originasse da una scintilla e dalla combustione dell’ossigeno, si spaventarono a morte e ci misero un po’ per imparare a gestirlo.
- Perché ho fatto una fatica boia a capire da cosa fossi affetta. Perché in giro non se ne parla abbastanza e quando lo si fa, si rischia di dipingere chi ne soffre come persone svogliate, apatiche, che non sanno reagire agli infausti colpi di coda della sfortuna. Dei deboli, che un po’ se la cercano o quasi quasi se la meritano.
- Perché spero di essere utile a qualcuno. La depressione vi artiglia e vi si avvinghia, ma è possibile farla addormentare e guadagnarsi uno spazio di libertà e di vita più o meno normale. Siete soli nella depressione, sì, ma là fuori ci sono altri come voi. Non c’è niente di intrinsecamente sbagliato in voi, la depressione non è colpa vostra. Si può curare, attenuare, persino guarire. Ma prima ancora, la si può e la si deve conoscere, capire e accettare.
- Perché per molti è ancora un modo di dire. Si è depressi perché finiscono le vacanze, perché i colleghi sono stronzi… No! Questa non è depressione, confonde le acque e bisognerebbe smetterla di chiamarla così, nel rispetto di chi già fatica a comprendersi e a definirsi. Questa è vita normale, con il suo generoso carico di sfighe e accolli. La depressione invece è una patologia, si origina da squilibri chimici nel cervello, da alcuni neurotrasmettitori che non vengono più prodotti in quantità sufficiente (vuoi per traumi, per predisposizione genetica, per esperienze di vita). Ciò causa alterazioni dell’umore, della coscienza, del corpo e della visione del mondo, fino ad invalidare la vita psichica e sociale di una persona.
Due assistenti speciali
Chiamo ora ad assistermi due creature che mi faciliteranno il compito di introdurre la bestia nera: direttamente dalle acque australiane, il blobfish, e dalla galassia di Star Wars, Jabba the Hutt. Cos’hanno in comune? Che quando cerco di concepire visivamente me & la depressione, mi appaiono costoro.
Il blobfish è un pesce talmente depresso che vive parcheggiato sul fondo marino, con questa faccia qui:
Ha il corpo interamente gelatinoso, per sopportare una vita sotto la pressione delle profondità che abita (parliamo di più di mille metri sotto il livello del mare). È solo poco più denso dell’acqua che lo circonda, perché altrimenti non sarebbe proprio in grado di muoversi. E appena lo togliete dal suo habitat, il suo corpo gelatinoso si sfalda da tutte le parti, come probabilmente anche la sua fragile psiche.
L’enorme Jabba the Hutt invece incarna non la vittima ma il carnefice, la depressione in persona, per via di ciò che combina ai due amatissimi eroi Leila e Han Solo.
La Principessa Leila, bella, coraggiosa e grintosa, una volta prigioniera di Jabba la incontriamo così, scippata dei suoi panni e incatenata a lui per il collo:
Sappiamo anche che fine fa fare il mostruoso Jabba a quel gran figo di Han Solo: congelato, immobilizzato nella grafite, con una delle smorfie più dolorose di tutta la cinematografia, a tempo indeterminato finché chi lo ama non accorre a salvarlo. (Buona notizia: entrambi i nostri eroi in seguito sconfiggono Jabba. Si può).
Fenomenologia della depressione
Dopo queste graziose immagini, vado al punto rivolgendomi a chi la depressione non ce l’ha e vuole capirla, e a chi è in dubbio se ne soffra davvero oppure no.
1) Pensate alle cose che vi piacciono. Che l’elenco includa la caciotta affumicata o Shakespeare, nuotare con i delfini o l’arte moderna, Ronaldo o la speculazione, non importa. Queste cose vi piacciono, vi dicono qualcosa, magari sorridete al loro pensiero, chi ve ne parla ottiene la vostra attenzione.
2) Adesso pensate a cosa volete dalla vita. Un incontro romantico, un aumento di stipendio, uno stipendio, il tappeto visto sul catalogo, il perdono, un tramonto rosso e viola, una cantina piena di vini pregiati, cinquanta euro trovati per strada, un nuovo laptop. Tutti desiderano qualcosa.
3) E infine pensate al futuro. Come sarete? Un “io” un po’ più maturo, qualcosa in più di fatto, nuovi posti visti, qualche ruga nuova… Se immaginate il voi di un lontano domani, più o meno a fuoco, lo intravedete.
Ora: al depresso non piace niente. Non vuole niente. Non immagina niente. Il suo cervello non glielo permette.
Zero assoluto
A chi è depresso manca l’energia vitale di base, quella che non notiamo mai perché è scontata, è il presupposto di ogni nostra azione. Non è nemmeno la volontà: è l’energia della volontà.
Da sani, si può odiare l’idea di andare a una riunione, ma si riuscirà comunque a trasmettere al proprio corpo l’impulso di prepararsi, uscire di casa e recarvisi. Ecco, uno che è depresso questo impulso di base non ce l’ha più. L’energia vitale in lui viene meno, quella forza naturale che fa sì che ci si alzi al mattino, si vada in bagno, ci si nutra, si scenda a prendere la posta, si esca nel mondo e si facciano cose, si abbia un ruolo sociale, ci si informi, si legga un nuovo capitolo, si guardi un film, si scrivano messaggi, si mandi avanti un blog, si intrattengano relazioni.
La depressione azzera tutto questo, lo soffoca sotto un manto di pensieri di morte e di inutilità. Il cervello è occupato unicamente a ruminare sentimenti di impotenza, disperazione e mancanza di senso su scala universale, assoluta. C’è solo questa coltre nera grande come tutto il mondo, che il depresso distingue esattamente in ogni suo ricamo e di cui sente tutto il peso, mentre gli altri no.
Il depresso perciò è esausto: pensa in continuazione, in genere rimpiangendo di essere al mondo e sentendosi un peso per le persone care e un disturbo per tutte le altre. Vorrebbe parlarne ma non ne ha la forza. Gli dicono “sforzati”, “prova”, il che per lui è una coltellata, perché ha disimparato come si fa, è come se gli chiedeste di respirare sott’acqua: non è che non vuole, non può.
Per il depresso soprattutto è terribile scegliere, anche e soprattutto nelle piccole cose. “Crema o cioccolato?”, e il depresso si inabissa nell’ansia, perché a lui non importa di niente, come gli si può chiedere di esprimere una tanto stupida preferenza? Che ne sa lui, cosa gli interessa? Decidete voi per lui, lasciatelo in pace a macerarsi.
Help!
Il depresso vorrebbe disperatamente essere aiutato, ma non ha la forza di chiederlo. Per iniziare un percorso di terapia bisognerebbe cercare uno specialista, prendere appuntamento, passare prima dal medico di base per la modulistica (qui in Australia funziona così), e poi, appunto, andarci, dallo psichiatra e/o dallo psicoterapeuta, con le proprie gambe. Un depresso grave non potrebbe mai fare tutto questo da solo.
Il depresso ha memorizzati nel telefono i numeri utili per comunicare con un professionista della salute mentale via messaggio o chat, meno invasivi del dialogo; ma si considera meno di zero e non se la sente di disturbare, soprattutto se già da sano tende a soffrire di sindrome dell’impostore. E poi comunque è così depresso che non avrebbe niente da dire, non saprebbe da che parte cominciare. Continua a pensare di non essere abbastanza grave, che le vere emergenze siano altrove, e intanto passa ore a fantasticare di uccidersi e a come farlo, se solo non esistessero certe persone che non può neanche pensare di ferire con quest’atto. Si vede come un blobfish, un inutile essere gelatinoso che fa acqua da tutte le parti.
Il depresso a volte piange, ma spesso non riesce a provare nemmeno la tristezza necessaria a sfogarsi con un bel pianto. Spera solo di dormire e di non sentire più niente.
Il depresso annulla tutti gli appuntamenti, ogni impegno. Non si fa più sentire, non vuole che lo vedano così, perché si identifica completamente con la sua patologia, che non gli lascia nessuno spazio per se stesso. Il depresso dimentica di essere, sotto quella coltre di fumo nero, una persona con delle idee, dei valori, dei gusti, degli affetti e delle gioie.
Sharing is caring
Come si conclude questo post? Non si conclude, per ora. Rimane aperto e possibilista, come la depressione. Che anche per questo va conosciuta, approfondita, integrata nei disturbi socialmente accettabili e non da relegare nel tabù.
Vi sarei grata se condivideste questo post con quelle persone là fuori che hanno ancora bisogno di capire. Tutti conosciamo qualcuno che conosce qualcuno, che conosce qualcuno… Che ha bisogno di sentirsi dire “Andrà meglio”. Perché sì, arriva il momento in cui va meglio, se non per ottimismo almeno per fedeltà alle leggi della probabilità. Questo è stato il mio pensiero-salvagente.
(E così come gli americani hanno imparato a scrivere sui bicchieri di caffè take away “attenzione: scotta!” perché dei cretini che si ustionavano poi correvano dagli avvocati, io ad uso di questa stessa tipologia di utenti specifico: non sono una psicologa e questo post non sostituisce un parere medico).
A presto con una promessa: nel prossimo post, cose bellissime. Davvero.
Ti è piaciuto questo post?
Segui Lucy the Wombat su Facebook!
Iscriviti qui sotto per ricevere i nuovi post via e-mail (il tuo indirizzo verrà utilizzato automaticamente solo per questo scopo).
Grazie e buona lettura! 🙂
Lascia un commento