Storia di un legame
Dicono: l’amore rende liberi. Non ci ho mai creduto. L’amore è il contrario: è il legame, quel vincolo che nessun sangue ti impone ma che hai scelto, e che esclude ogni altra opzione. In un mondo sovrappopolato in cui persino sedere per un’ora e mezza nel buio accanto a sconosciuti per assistere allo stesso film disturba e mette ansia, questa cosa dell’eleggersi un compagno con cui augurarsi di essere seppelliti lo stesso giorno, nella stessa tomba, per me ha della fantascienza. Eppure esiste.
Quel legame per cui un bel giorno ti vesti a festa, vai a mettere una firma, fai una serie di goffaggini, indossi un anello e da quel momento sei con lui anche sui certificati. Per cui un mattino devi scegliere tra tutto quello che conosci del vecchio mondo e sparire nell’altro emisfero con lui, e quel mattino la scelta non si pone neanche.
Nell’immaginario dei film e dei romanzi, l’amore fa la sua comparsa dirompente, prepotente, mandando all’aria tante cose per crearne delle altre. Il mio è entrato nella mia vita in punta di piedi, con delicatezza, e forse proprio per questo dura, ed è sempre lì, naturale, ostinato, mentre tutto il resto passa e va.
Il mio amore ama i dizionari, i timbri sul passaporto e Berlino. Ama i film in cui non succede niente, le vecchie scritte commerciali scolorite sui muri di altre epoche, l’acqua di cottura amarognola delle verdure, e ovviamente il wombat.
E poi ama me e mi tuba. Sono anni che provo a capire perché, ma non ne vengo a capo. Dice di averlo capito da subito, da quella volta in cui mi incontrò china su Guerra e Pace, tutta assorta. La volta dopo, lui aveva le stampelle e io scappai via di corsa a una cosa chiamata séminaire d’excellence. Roba che un altro sarebbe fuggito a gambe levate, stampelle permettendo, invece lui poi tornò da un viaggio portandomi in regalo una matrioska, allo stesso modo in cui i delfini offrono alle delfine una spugna di mare. Non ho mai capito perché non abbia regalato la sua matrioska a una di quelle ragazze perfettine, biondine, carine e a modo, magari di nome Chiara o Elisa, che hanno sempre tutto sotto controllo e una vita lineare, e che sotto la doccia usano solo la spugna naturale di mare.
Il mio amore sa tante cose e non ne ostenta nessuna. Alle mie domande esistenziali però risponde sempre: “Boh!”. Io insisto per trarne qualcosa, mi lancio in certi what if…? pindarici, gli parlo dei miei film di fantascienza preferiti e di storie strambe, “non è assurdo? eh? eh?”. Ma lui diffida, perché “non c’entrano col mondo reale”, e non gliene cavo più niente. Una delle mie storie di fantasia preferite è la storia di quei due innamorati che si addormentano insieme per sognare di sognare, e lì in quel sogno sognano di sognare, quindi, un mondo onirico tutto da scoprire e in cui poter stare insieme molto più a lungo. Un universo irreale, un po’ com’è questa Australia per noi, vuota e con noi due dentro per riempirla e viverla. Lui scuote la testa perplesso e alza le sopracciglia, non vede il nesso. Ma quando vuol farmi piacere, dice ridendo “Dai, raccontami di nuovo la trama di Inception”, per poi farmi notare che siamo sul tram e che mi sono così infervorata che sto gridando da dieci minuti.
Il mio amore, dalla natura solida e strutturata, ama ricordarmi che la mia è quella di un essere selvatico. Sa che non posso essere del tutto addomesticata e gli va bene così, e forse è questo il segreto. In cerca di un selvatico che mi corrispondesse, una volta ha adottato un pinguino a distanza, per me. Quando ci siamo trasferiti qui, ha adottato per me una koala, Maxine, e mi ha fatto spedire il certificato. Per sé ha adottato una koala cieca, Maree. Guardo i certificati appesi sul frigo e penso che se stiamo insieme un motivo c’è.
Poi un giorno mi ha annunciato di avere un wombat immaginario, e fu così che nacque Lucy. Quel giorno ho pensato di aver fatto proprio un buon lavoro.
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(Foto: Pixabay)
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