DALLA VISITA ALLA CAPITALE ROMENA ALLA CRISI ESISTENZIALE
“Se ti svegliassi in un posto diverso, a un orario diverso, ti sveglieresti una persona diversa?” – si domandava vent’anni fa Edward Norton, mentre l’inquadratura si posava sinuosa su Brad Pitt, nel mio film preferito di tutti i tempi.
Me lo sono chiesta spesso anch’io, di solito per rispondermi che potevo anche fare a meno di scoprirlo. In fondo, su sette miliardi, poteva andare molto peggio, con buona pace di quel “choosy” con cui quella simpaticissima ex-ministra si faceva beffe di noi Millennial.
Di recente c’è stato un momento, però, in cui mi sono convinta del contrario, fortissimamente: sarei voluta essere qualcun altro, eccome, con tutta me stessa. L’evidenza della scoperta mi ha gettata nella più nera disperazione.
“Qualcun altro” chi, e perché?
NEL CENTRO DI BUCAREST
La rivelazione è arrivata quando a luglio, per le vacanze in Europa, ho passato un weekend a Bucarest, Romania (a forza di vivere in Australia sono abituata a specificare anche la nazione, scusate!). Un’altra bella contrada del mitico reame di Spacoland, dove il sole non tramonta mai – a meno che non si esauriscano le scorte di alcool e le giacche leopardate.
VITA DA ROMENO QUALUNQUE
Nonostante una certa rovina oggettiva in giro, ho avuto subito un’impressione così favorevole della città da indurmi a speculare che, in un mondo parallelo, mi sarebbe piaciuto vivere lì, reincarnarmi in qualcuno del posto. Mettiamo: un metallaro romeno. Uno di quei ragazzi che la sera, nel cuore pulsante della città, lo storico quartiere semipedonale di Lipscani, sbirciavo bere birre e fare discorsi esistenziali con gli amici fumando una sigaretta dietro l’altra, sempre lì, sempre gli stessi, tra i turisti in transito in cerca di buon cibo, souvenir e locali notturni a tutte le ore.
Un metallaro troppo alto e troppo magro dallo sguardo vispo, un bravo ragazzo da sposare, magari con una fidanzata che la sera si dimenasse meccanicamente davanti agli occhi avidi di uomini di passaggio, per rimediare cash facile con cui girare il mondo insieme a me; ma naturalmente desiderosa di smettere, per diventare archeologa o veterinaria. In questi panni mi sarei chiamato tipo Eugeniu.
Di giorno avrei fatto il garzone che imbottiglia il latte al variopinto mercato centrale di Obor, tra vecchiette sdentate con il fazzoletto in testa e instancabili donne all’ultimo mese di gravidanza dietro ai banchi di frutta e verdura freschissima, dall’ostilità tutta est-europea per i clienti occidentali; per poi precipitarmi a fine turno alla nuovissima Decathlon lì di fronte, a comprare magliette in tessuto tecnico e sentirmi arrivato nella modernità, benedicendo in segreto quel cattivone dell’imperialismo capitalista.
Avrei studiato l’italiano per diventare guida turistica e accompagnare i gruppi in giro per la capitale, tra vecchi palazzoni popolari in stile sovietico, edifici di ispirazione francese, come la copia uguale uguale dell’Arc de Triomphe che fa tanto chic, verdeggianti parchi cittadini lungo le anse del fiume Dâmbovita con tanto di spruzzatine di laghetti qua e là, e innumerevoli chiese di ogni forma e culto.
Di sera, per racimolare qualche extra, avrei fatto il cameriere all’Aubergine, pregiato ristorante di Lipscani tutto fondato sulle melanzane. Perché a Bucarest le cucinano in mille modi, diversissimi e tutti ugualmente commoventi per le papille gustative. E così avrei avuto accesso gratuito e illimitato al magico mondo delle melanzane (di seguito, galleria cibo-pornografica di piatti mono-ingrediente).
(Posti così esistono davvero. Anni fa, a Helsinki, cenai in un ristorante dove ogni pietanza era preparata a base di aglio, persino il dessert. Una lavagna all’ingresso segnava quanti chili di aglio si consumassero ogni sera. Era buono e divertente, ma il giorno dopo mia madre, aprendo la porta per accogliermi, da mora diventò bionda per il mio alito. Qui in Romania, per amor di vampiri, hanno adattato l’idea a un ortaggio meno killer).
Insomma, nei panni di un ragazzo romeno avrei avuto un’interessante vita da cittadino onesto e circondato da affetti, quella felicità tanto genuina quanto non rumorosa (se vi chiedete perché il cambio di sesso: dai, lo sappiamo tutti che da maschi la vita è più semplice). In Italia qualcuno avrebbe continuato a pensare alle mie sopracciglia nere nere come a quelle di un delinquente, anche prima che invecchiando mi venisse la pelle ruvida e rossiccia simile a un pellerossa; ma non sarebbe stato un problema mio.
IL ROMENO: UNA LINGUA VICINA
Sarebbe stato proprio divertente fare il ragazzo romeno, anche perché la lingua romena non sembra per niente difficile: scritta si capisce abbastanza bene, una volta fatta l’abitudine a tutte quelle u. Dalla mia vita precedente di brava studentessa amante del multilinguismo avrei tratto la base da cui partire, la regola numero uno da cui ricavare tutto il resto delle parti del discorso: no, non “Lupululì – Castello Ululà” – quasi! – bensì
Lupul, lupii,
Nominativo, genitivo, singolare e plurale.
Lupului, lupilor.
(L’avevo sempre saputo che un bel giorno l’amico lupul mi sarebbe servito a qualcosa! Che non era solo l’ennesima declinazione morta da mandare a memoria! Eureka! Dragoste lupilor!).
TRASFERIRSI IN ROMANIA?
Mentre aggiungevo dettagli mentali alla mia versione personale di Eugeniu e a come l’avrei interpretato, già proponevo ad A. di trasferirci a Bucarest, aprire un business lì e godere di tutti i vantaggi di una capitale europea.
Marciapiedi fatti di ciottoli veri, fatiscenti ma tanto romantici; chiesette dalle facciate instagrammabili; scavi antico-romani da ammirare qua e là; poter cenare tardi la sera, e potersi bere un cocktail ancora più tardi. Tutte cose che nel continente da cui scrivo ora mi mancano. E poi quasi-Schengen; musica da urlo nei locali – musica vera, rock, con un’anima; Ryanair a un tiro di schioppo; musei; un fuso orario quasi uguale all’Italia; e infine la bellezza di prezzi più bassi.
Una città persino ripulita dai cani randagi che, fino a pochi anni prima, la infestavano (per testimonianza diretta di vari amici che per miracolo non ne sono tornati con la rabbia).
“Vuoi mettere…” – esclamavo sentendomi astutissima – “…rispetto all’Australia?!?”, davanti alla cui inoppugnabilità, A. si è lasciato convincere. Stavamo già per metterci a studiare la tassazione e la burocrazia locali per capire come traslocare, finché una mossa falsa non ha fatto crollare tutto il mio castello di carte, e ricominciare un’esistenza da simil-Eugeniu non mi sembrava più così appetibile. Anzi, per la verità nemmeno un po’.
THINK BIGGER!
Ho realizzato che la figura in cui mi sarei voluta realmente trasformare era già nata, sì, ma pure già morta. Non avrei mai avuto modo di essere lei, né di assomigliarle lontanamente. Di colpo, il resto della vita romena perdeva ogni attrattiva; meglio lasciar cadere quei sogni da due soldi.
Il passo falso e rivelatore è stato visitare, nella stessa giornata, il Palazzo del Parlamento di Bucarest e la residenza privata di Nicolae Ceauşescu, il feroce dittatore comunista romeno che tra il 1967 e il 1989, per farla semplice, fece in piccolo quello che Stalin fece in grande.
VITA DA ROMENO NON QUALUNQUE
LA “CASA DEL POPOLO”, IL PALAZZO DEL PARLAMENTO DI BUCAREST
C’è il sole quando ci avviciniamo al Parlamento, un bel sole estivo che illumina la democrazia. Per fortuna arriviamo dal lato giusto per l’ingresso dei visitatori, altrimenti per entrare avremmo dovuto percorrere l’equivalente di diversi isolati. Ceauşescu infatti, per far costruire il mastodonte a celebrazione della propria persona, ma intitolato al popolo tutto, pensò bene di far letteralmente radere al suolo interi quartieri, dislocando altrove gli abitanti. E gli abitanti muti! Fu così che sorse l’edificio amministrativo ad oggi secondo in tutto il mondo per dimensioni, dopo il Pentagono.
Anche il titanismo degli interni è senza paragoni. Versailles gli fa un baffo! In un’ora e mezza di visita guidata percorriamo due chilometri e visitiamo solo il 3% degli ambienti, in un crescendo di sgomento per le pretese megalomani dell’ex coppia presidenziale, la quale in soli sei anni fece tirar su tutto da zero, con metodi schiavisti che neanche i Faraoni per le piramidi.
La ragazza che ci guida su e giù per maestosi saloni e navate, timida insegnante di scuola, nel rievocare il comunismo prende lo sguardo triste: i suoi genitori non capiscono le critiche di oggi, dice, e ancora ripensano con nostalgia al regime. Ma i giovani vogliono essere moderni e liberi (anche di andare al mega-Decathlon, lo so, lo so che lo sta pensando! Ci andrò io anche per lei!).
Ci addentriamo tra scaloni, volte, colonne, capitelli, intarsi, marmi rosa francesi, dipinti, arazzi, lampadari in cristallo ed enormi balconate (compresa quella da cui un confuso Michael Jackson pronunciò “Good morning Budapest!” davanti a una perplessa folla oceanica), finché l’allodola che è in me, piano piano, si lascia conquistare dal demone pop del totalitarismo. Di fronte a tutto quel lusso, non sono affascinata: sono estasiata. Ah, la possente Repubblica Socialista di Romania! Esco dal palazzo che voglio essere direttamente Ceauşescu, altro che il mite Eugeniu.
Nei panni del Presidente-Dittatore mi sarei aggirata solennemente per i corridoi di rappresentanza, discutendo con i miei subordinati di come trasformare la cultura in propaganda, ovviamente nell’ottica del culto della (mia) personalità. Provvedimenti altrettanto essenziali sarebbero stati, tra gli altri, impegnarsi per razionare il cibo, espropriare possedimenti, e vietare ogni forma di contraccezione e interruzione di gravidanza, per dare nuovi figli alla Patria. Le madri con dieci pargoli avrebbero ricevuto un’automobile in premio fedeltà; le nullipare di oltre 25 anni di età, solo tasse punitive.
Se qualcuno avesse solo detto “bah”, l’avrei fatto molto stalinianamente ammazzare. Un sogno.
In nome del comunismo e del popolo, naturalmente!
LA CASA PRIVATA DI Ceauşescu
Da fuori, l’abitazione privata di Nicolae ed Elena Ceauşescu pare tutta il contrario del ciclopico palazzo governativo: una magione piccolina, relativamente modesta, seminascosta dalle fronde dei pini in una normale zona residenziale.
Ma una volta entrati, con indosso i copriscarpe per non rovinare i tappeti, tutto cambia… A sorpresa si schiudono nuove soglie di opulenza e di paradosso. Che io adoro.
Le stanze sono decorate a tema secondo i gusti dei vari membri della famiglia che le occupavano. Dalle statuette d’avorio alle urne greche ai sofà napoleonici, pensate a una qualunque forma di pregio e qui la troverete. Arrivata all’ultimo dei bagni privati, interamente rivestito di mattonelle dorate da fare invidia al wc in oro massiccio di Donald Trump, ho i lucciconi agli occhi e vorrei fermarmi a vivere lì. Nel bagno d’oro. Comunista. Provo un senso di appartenenza, sento di non dovermene andare mai più.
Anche perché al piano di sotto ci sono spa, sauna, vasche e lettini per massaggi e altre diavolerie meccaniche, lusso mai visto per l’epoca. Chiedo di poter acquistare la villa, e allo sguardo ostile che ricevo mi dispero. Avrei tanto voluto poter disporre della mia personale polizia segreta, fare il bello e il cattivo tempo sui media e reprimere con classe ogni dissenso!
Proprio come Ceauşescu che, autoproclamatosi con originalità “Condottiero”, probabilmente scrisse proprio dal bagno d’oro il famoso poema con il quale aspirava al Nobel per la Pace. Facendo sparire gli oppositori e chiunque non gli garbasse, ovviamente, con la stessa leggerezza con cui tirava lo sciacquone d’oro.
Ma è con la sala della piscina, una piscina anche lei militante e rivoluzionaria, che proprio vorrei mettermi a urlare. Le pareti ospitano il mosaico più bello che abbia mai visto, che non posso descrivere perché a quel punto svengo come Dante in Paradiso. Genocidio e distruzione dell’economia nazionale sono concetti che non distinguo più, accecata dal lusso. Vi prego, fatemi essere Ceauşescu!
Non importa se poi, puramente per invidia della mia piscina mosaicata, nel giro di soli tre giorni mi avrebbero arrestato, deposto e fucilato (con la Rivoluzione del 1989). Mi sarei goduta una vita di sontuose pari opportunità comuniste per me e il mio popolo (non è vero che il popolo moriva di fame, impossibile!), da dentro a quella sfarzosa abitazione, insieme a tutta la mia famiglia, con tanto di pavoni in giardino. Pavoni comunisti, naturalmente. Sarei comunque stata ricordata come un benefattore – solo da alcuni, certo, ma non si può piacere a tutti.
La stanza-guardaroba di Elena Vestiti Chanel
FINE DELL’UTOPIA
Un sogno meraviglioso ma di fatto irrealizzabile, per essere venuta al mondo troppo tardi.
Come consolarmi? Con un’allegra visita al Museo del Kitsch Romeno!
“Non ti bastava già tutto il kitsch fino a qui?”, chiederete. No… il kitsch in Romania ha un suo museo ufficiale a parte – perciò sarà a parte anche qui sul blog 🙂
Grazie di avermi seguita anche in questa tappa di Spacoland, pe curând!
Ti è piaciuto questo post?
Segui Lucy the Wombat su Facebook!
Iscriviti qui sotto per ricevere i nuovi post via e-mail (il tuo indirizzo verrà utilizzato automaticamente solo per questo scopo).
Grazie e buona lettura! 🙂
Lascia un commento