Nota: per questo reportage sul Great Ocean Road Tour, nessun cinese è stato maltrattato.
[Ultimo aggiornamento: dicembre 2022]
243 chilometri di strada mitica
Al ritorno a casa, per giorni mi sono arrovellata su come raccontare i quasi-250 chilometri di cinesi viaggio sulla Great Ocean Road in modo accurato e politicamente corretto.
E alla fine ho deciso: via ogni velleità da rivista patinata, via le tonalità da brochure e dépliant, sì a un più schietto e semplificato assemblaggio dei miei highlights personali, lasciando per una volta la mia impressionabile interiorità a riposare tranquilla in un cantuccio. Tanto, la GOR (da queste parti la si abbrevia così) è una strada bella e approssimativa.
Fu costruita quasi cent’anni fa dai soldati australiani di ritorno dalle battaglie estere della Prima Guerra Mondiale, tanto per metterli a combinare qualcosa facendoli sentire ancora braccia utili alla comunità.
Oggi questa strada panoramica è uno dei fiori all’occhiello del turismo nel Victoria, lo stato che, sulle targhe delle auto, si definisce con umiltà “The Place to be” – e dopo aver visitato Adelaide non me la sento di dargli torto.
Risulta approssimativa perché promette certe cose e poi ne dà altre (cinesi), non meno stupefacenti ma comunque fuorvianti; rischiando di far precipitare il viaggiatore non giù per una scogliera o per un dirupo, bensì in un attonito caleidoscopio di dissonanze cognitive.
Salutato il South Australia, tappa precedente del road trip, imbocchiamo la Great Ocean Road da ovest verso est, per poi rincasare a Melbourne (e poter pensare concretamente alla scelta dei nostri futuri pappagallini da adottare).
Great Ocean Road Tour: strani incontri
Prima approssimazione: per metà del percorso, dell’oceano neanche l’ombra. Si guida per pianure, colline, tornanti, foreste di eucalipti, riserve naturali. Non che sia un male, anzi, niente affatto, se non fosse che si chiama Ocean! Anche la signorina registrata che ci dirige dal GPS è interdetta, tanto da non riuscire a pronunciare decentemente il nome inglese e dover ripiegare ossessivamente su “Strada Statale Bi cènto” (B100).
Poi la prima sorpresa: incontri fortuiti con orsetti koala.
E con cinesi che fotografano orsetti koala.
Incidenti a catena evitati per un pelo, inchiodando tutti quanti insieme alla visione di un koala sull’albero in posizione iconica, con in mano uno striscione con la scritta Greetings from Australia (lo striscione l’ho aggiunto io nella mia mente, ma era proprio come se ce l’avesse!).
Coppiette di emù che se ne vanno romanticamente a passeggio al calar del sole.
Cinesi che donano pacchi di pancarré agli emù, in barba ai divieti e al buon senso.
Foresta pluviale.
Alberi altissimi e il profumo non diluito della terra umida, da cui tutto proviene e a cui tutto ritornerà.
La mia dolce metà che fa movimenti approssimativi e scivola dentro al tronco di un albero, e si aggrappa a me per cadere insieme dentro l’albero. Pur sempre un primato. Cinesi che ci indicano, sganasciandosi dalle risate.
Stilose e rarissime lumache nere millantate dai pannelli informativi, e ovviamente non avvistate.
Pseudo-individui che non hanno chiaro che nella quiete del bosco è meglio non vociare e mantenersi discreti, per rispetto di tutto e di tutti. Private fantasie di solitudine (e di estinzione dell’umanità).
Scarponcini infangati lavati nelle pozzanghere del parcheggio, prima di risalire in macchina evitando pullman di cinesi in retromarcia e ignari di ogni codice della strada.
Tramonti. Il cielo concede una ventina di minuti di tempo per realizzare che alla scomparsa delle ultime luci, chi è ancora per strada è spacciato. Lungo la carreggiata è il buio totale; anche con gli anabbaglianti si rischia comunque di andare a sbattere. Preghiere ad Apollo affinché illumini almeno gli animali selvatici sulla necessità di non attraversare la strada asfaltata proprio in quell’istante.
Lavers Hill: perdersi nel nulla
Cartelli stradali che avvertono del pericolo di ogni cosa. Mucche, pecore, canguri, cinesi, ciclisti e centauri: ciascuno gode di un proprio cartello. Mi sorprendo a sognare un cartello per me stessa, così, come per un essere mitologico.
Strade sempre più strette, curve sempre più inattese, illuminazione sempre più non pervenuta. Nel dubbio, ci salutiamo e ci ringraziamo per questi anni insieme, ciao amore eh, è stato molto bello.
Hotel approssimativi in villaggi approssimativi.
Per cenare occorre spostarsi in un altro villaggio camminando lungo il ciglio della statale, sperando di non disturbare inavvertitamente qualche serpente.
Nel nulla e nell’oscurità silenziosa, una signora esce sul retro di casa sua a buttare la spazzatura, ci scorge incedere imbacuccati e a passo marziale (per la fame e per il principio scientifico della conservazione dell’energia, o almeno credo) e invece di allertare la polizia della nostra inquietante presenza ci saluta, chiedendoci approssimativamente come stiamo.
Rane. Si impara quanto forte possano gracidare, di notte.
Nebbia.
Niente cinesi, o forse giusto cinesi che non si vedono né si sentono, coperti dall’energico cra-cra-cra e dalla foschia umida.
Passeggiate nel bush. Camminate di due ore sotto al sole senza incontrare cinesi un’altra sola presenza umana.
Attimi di smarrimento quando il suolo si mette tutto a vibrare: “Thump – thump – thump”! Ma è solo un grosso canguro che salta via chissà dove nella fitta vegetazione, velocissimo.
La risata del kookaburra che riecheggia da chissà dove, a monito.
Sentirsi come dentro a una cartolina.
Sentieri approssimativi. Nel dubbio, tornare indietro e cambiare percorso, sprovvisti come siamo di cibo, torcia e bussola – gli accessori consigliati come must agli escursionisti.
Risbucare nella civiltà e fare merenda al bar insieme a cinesi un kookaburra che si appollaia in veranda tra i tavolini, nell’attesa di ciò che gli è dovuto: uno spuntino! Da dentro esce una ragazza, recandogli in omaggio un contenitore pieno di pezzi di carne, che gli porge uno a uno in quello che indovino essere un rito abituale. Il kookaburra non deve chiedere mai!
Per fugare ogni dubbio, i pezzetti di cibo che agguanta col becco li sbatte comunque contro la staccionata con una rapida virata di collo per ucciderli, esattamente come farebbe con una preda appena cacciata e ancora viva. Il kookaburra è un uccello scrupoloso per natura, e per niente approssimativo.
Great Ocean Road Tour: Cape Otway
La tappa di Cape Otway lungo il Great Ocean Road Tour vanta un antico faro con stazione del telegrafo, con dentro una guida approssimativa che mentre osservo incuriosita i libri d’epoca proferisce soltanto “stai guardando nella direzione sbagliata”. Ohhmm. Salgo sul faro e sento il vento dall’alto.
Questo tratto di costa è noto come la Shipwreck Coast, o costa dei naufragi, perché per svariati decenni di tanto tempo fa le navi intuivano solo approssimativamente che a un tratto, senza avvisare, il mare finisse, e che iniziasse la scogliera. Crash. Oggi rimangono i volantini multilingua (cinese) con la storia dei sopravvissuti a questo o a quel naufragio.
Mi domando come dovessero sentirsi le persone del passato vittime di sventure del genere, prima che la psicologia se ne uscisse con “Questo è normale e si chiama stress post-traumatico”. Ringrazio mentalmente l’epoca presente.
C’è anche un bunker della seconda guerra mondiale, perché i tedeschi (anzi, l’Asse, per essere più precisi e meno eurocentrici) erano arrivati anche qui. Cinesi. Ansia; senonché alla vista del bunker sono subito avviluppata da una coltre di benessere e calma.
Iconografia e pannelli informativi sulle balene; ma senza balene, perché non è stagione di migrazione e passaggio in questi mari. Ora nuotano altrove. Sigh.
Cinesi che leggono le spiegazioni, poi cercano ugualmente le balene e si fanno i selfie con i tablet.
Kennet River
Campeggio con presenza di orsetti koala sugli alberi del retro: pare che la notte li si senta grugnire. Prendo il volantino e fantastico su quale sarà il mio bungalow, quando verrò ad abitare qui per sempre.
Pappagalli coloratissimi e approcciabili.
Great Ocean Road Tour: i Dodici Apostoli
Finalmente, il Great Ocean: il tratto più panoramico, quello dove si sosta tutti per rimirare i Dodici Apostoli, che non sono coloro che laicamente ristabiliranno un equilibrio sostenibile nel numero di cinesi, bensì più materialmente degli enormi faraglioni, che sorgono dal mare e fanno un certo effetto.
Solo che da quando i primi cinque sono collassati uno dopo l’altro per l’erosione, ne restano sette, non più dodici; pigrizia e approssimazione hanno fatto il resto.
Cinesi a fiumi. Cartelli in cinese. Selfie stick. Meglio cercare altri lookout, relativamente meno frequentati.
È tutto un grotte, scogliere, falesie, nuvoloni dark sul tramonto e sui cinesi.
Mega-parcheggio e centro informazioni, ma aperto solo fino a metà pomeriggio, altrimenti chi torna più a casa una volta andato giù il sole?
Cinesi che ci sorvolano in elicottero.
Il panorama è tale da silenziare ogni vocalizzo emozionato e renderlo muta contemplazione. Il Great Ocean Road Tour conquista infine anche me.
Eppure non posso fare a meno di sentirmi un po’ una piccola termite, tra un miliardo di miliardi di termiti che pian piano rosicchiano via questo pianeta e le sue scogliere.
La prima parte del Great Ocean Road Tour finisce qui! Prossimamente in arrivo nella seconda metà del reportage: il villaggio dei cacatua, le spiagge D.O.C. e tutti i segreti del surf!
**DISCLAIMER**
L’anno scorso, durante un road trip in Scozia, un bel giorno ho puntato la sveglia all’alba per terminare un MOOC (un corso online, per chi non fosse iniziato a questo variopinto e multiforme universo) di lingua cinese. Così, perché ne avevo voglia. Mi sono alzata giusto in tempo per finire l’ultimo assessment ancora seduta nel letto, veder comparire la mia nuova coccarda sulla piattaforma virtuale e chiudere tutto lasciando l’ostello in orario e rimettendomi in viaggio, forte della mia neo-conoscenza del potere del Guanxi. Perché una follia del genere? – chiederete voi. E chi ha bisogno di un perché, quando ha il Guanxi? 😇😉
Per organizzare un viaggio a partire dal sito ufficiale della GOR, clicca qui.
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