Cosa rimarrà di un attentato e di un anno passato a cercare di oltrepassarlo, nella città dell’amour fou
Un jour, i dadi mi rispediranno alla casella di partenza.
Mi sceglierò un segnalino di colore diverso, festoso (giallo o azzurro, non più nero amnesia né rosso venoso, e nemmeno trasparente) e ripartirò da capo.
Ci vorranno anni, ma un giorno ripasserò da lì. Solo in transito, però.
Percorrerò uno dopo l’altro quei lastroni esperti di storie, tra la cattedrale algidamente materna e il fiume riflessato di ombre in amore, esausto di altalenare su e giù in balia di troppe piene – d’acqua, di Bene e di Male.
Mi sovrapporrò alla casella del chilometro zero e poserò il piede su una mattonella irregolare, che mi teletrasporterà senza passare dal Via! al tempo in cui la calpestavo anni prima, inciampandoci sopra.
Stavolta non ci sarà sangue. Nessun livido. Senza più dolore, farò di nuovo caso a tutti quei luoghi che uno ad uno avrò esalato via, vivendo altrove.
Mi riapparirà l’Hôtel-Dieu, ma non per doverci entrare ancora – accettazione, perizia, farmaci. Non per accompagnarvi amici che per lo shock non hanno più voce. Solo per fiancheggiarlo andando ad ammirare le orchidee del Marché aux Fleurs, cercandone il profumo e cristallizzandolo – perché in fondo tutto il capitolo nacque così, dalla ricerca di un profumo.
Tornerà il Boulevard Morland, ma non per il suo ascensore infinito – accettazione, Bonjour, lo psy arriva subito, veuillez patienter, voulez-vous un café?; ma solo per infilarmi nella libreria di fronte e nelle altrui parole scritte, per controllare se il lettino di Sylvia Beach è sempre al suo posto, e se il messaggio benevolo di Walt Whitman è ancora dedicato allo straniero che passa di lì. Salterò un turno per piangere di meraviglia, come la prima volta.
Ripenserò a quando la mia mente era così danneggiata, da farmi ripetere lo stesso giro dell’oca lungo tutta una strada senza capire dove entrare, perché leggevo un indirizzo e non assimilavo, rileggevo e niente, l’informazione non saliva al cervello.
Rivedrò quel portone pesantissimo, il metal detector e la grossa targa di cui a lungo rilevavo solo la parte “vittime di guerra e di terrorismo”; ma il mio dossier ormai sarà completo. Finite le deviazioni per incontrare l’avvocato, per discutere di expertise e contre-expertise. Mai più cartoncini da pescare. Sarò libera. Finite le interviste per la ricerca, per gli studi scientifici su quella zona grigia che abbiamo dentro la testa, ché non mi sarà rimasto nulla da dire, avrò vuotato il sacco.
Passerò dalle due cifre più severe del Quai des Orfèvres: solo un civico qualunque, non più il mio 36, la carta di identità da mostrare, quei corridoi mitici e angusti del sottotetto e quei soldati così umani da riconoscere e salutare. Mai più esaminare liste di oggetti fotografati, sperando di riconoscervi i miei. Basta.
Avrò dimenticato cosa indossavo, rimosso e lavato via. Guarita forse non del tutto (è forse possibile?), ma cresciuta. Andata non oltre (non ci si va mai del tutto), ma in avanti, piano piano, come la tartaruga di Zenone.
Mi porterò a passeggio, tranquilla per la mia strada. Se ne avrò voglia strascicherò i piedi, mi vestirò sbadatamente perché non mi importerà, sbadiglierò senza coprirmi la bocca. Non dovrò essere bella a tutti i costi e in ogni momento per ricordarmi di avere ancora questo corpo che ho rischiato di perdere.
Non dovrò dimostrare niente. Potrò scegliere se fare le cose o non farle. Se avrò freddo mi coprirò. La mia pelle lo noterà di nuovo, quel vento pungente, non sarà più anestetizzata.
Non avrò più bisogno di congelare pur di sentire qualcosa, qualunque cosa. Saprò di nuovo stare da sola, mi sarò data un limite, un involucro a proteggermi. Saremo io e la vita normale, ricompattata, e andrà benissimo così, avrò di nuovo la mia età.
La mia ultima sera, non avrò l’urgenza di vagare avanti e indietro con tra le mani un mazzo di fiori e nel sangue troppo alcool, negli occhi troppo sale. Non finirò di nuovo là, seduta a terra davanti a quella facciata giocosa e beffata a piangere altre lacrime, deludendo i passanti perché no, non voglio compagnia, grazie, solo starmene qui un momento.
Non mi addormenterò la notte nel métro per finire chissà dove. Non mi farò del male. Saprò badare a me stessa. Starò attenta e mi prenderò cura di me.
Forse saprò persino scrivere come si deve, svincolata da questo odioso, incespicante assetto post-traumatico.
E poi di nuovo me ne andrò, forte della consapevolezza che andarsene è salutare (in entrambi i sensi); che si parte non per quell’iniziale strappo doloroso che ci metta alla prova, non per l’anima lacerata come se fosse di carne e nervi, ma per risanarsi, per ricomporsi. E che dai dadi esce sempre qualcosa, non fanno mai zero. Che la vita è più della somma delle sue parti.
Tra 24 ore prendo un aereo per salutare l’Europa, ma Parigi stavolta no. Che stia lì a sedimentare, io devo continuare a guarire.
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