Una
Polly è arrivata con un bagaglio, uno di quelli che per il troppo peso costringono a soste ripetute. Dolorava, pur essendo in perfetta salute. Non ne voleva sapere di niente e di nessuno. Si faceva vedere solo per i pasti, agguantava i pezzi migliori e se li portava via, per sbocconcellarseli in solitudine. In pratica era come me, solo più fragile e più bulla; per questo l’ho subito amata alla follia. Mentre si nascondeva, le ho bisbigliato: “A te adesso ci penso io”.
Mi guardava con aria supplichevole: “Ti prego, lasciami in pace”. In risposta, la lodavo. Allora cercava di intimidirmi con sguardo truce: la lodavo. Non importava cosa facesse per scoraggiarmi. La lodavo e le sussurravo: sei libera. E sei al sicuro. Sedeva, vigile, sempre all’erta. Le parlavo e mi muovevo piano, per non spaventarla, non farle insorgere brutti ricordi. Evitavo i rumori. Le davo attenzione. La premiavo e lei non capiva perché. Diffidava dei miei tentativi di convincerla che fosse meritevole intrinsecamente. Non si capacitava. Avrei vinto io, questo l’avevo saputo a prima vista.
Due
Polly era una ragazza madre: è arrivata con Molly, piccina, che era il suo opposto. Molly brillava di una luce interiore tutta sua, che non aveva assorbito da nessuno. Faceva saltini di gioia immotivati. Era una creaturina assertiva e curiosa, che aveva bisogno di correre e di scatenarsi. Possedeva uno scudo energetico che la rendeva impenetrabile al disagio tutto intorno: lei era sempre felice, per qualche imperscrutabile ragione. Faceva piroette. Imparava. Al contrario di Polly, talmente sfiduciata che non osava mai chiedere nulla, Molly teneva in gran conto i propri desideri. “Voglio questo!!”, e naturalmente lo otteneva. La sua allegria non solo si autoalimentava, ma era contagiosa. Faceva un sacco di nuove scoperte, di discorsi tra sé e sé, si raccontava storie.
Nonostante la sua mamma si mostrasse piuttosto insofferente a lei, lei la adorava di un amore inestinguibile e devoto. La mamma era il suo idolo, il suo modello. Dalla mamma apprendeva a diventare adulta. L’ho vista emularne via via i comportamenti, e incedere soddisfatta dopo ogni prima volta, con l’aria importante. La mamma che, come veniva fuori quando Molly si infortunava, se ne disinteressava solo per finta: allora accorreva tutta preoccupata, e a pericolo scampato si lasciava andare a una felicità speciale, non autocensurata.
Erano Polly e Molly ed erano i miei grandi, piccoli amori.
Polly e Molly sono due porcellini d’India; ma come amavo ripetere loro, la loro specie non era essenza, bensì puro accidente. Per me erano due anime amorose, incontrate al momento giusto.
Amore e felice oblio
Aspettavano sempre la sera, il gran momento del divano. Molly adorava giocare a fingere di lanciarsi giù per farsi acciuffare. Guai a lasciarla sola per un secondo: chiamava, voleva saltare in braccio. Con il tempo, la sua felicità interiore si era fatta meno a sé stante e più dipendente da noi altri: bramava la vicinanza, il contatto. Prima aveva troppa energia per stare ferma a farsi fare le coccole; cresciuta, non chiedeva altro, e ci ricompensava con versetti senza fine. Ci aveva tutti in pugno, nel cuore. Un cuoricino pulsante che quando si agitava faceva “Tum-tum-tum!” a mille all’ora. Andava pazza per il peperone rosso; dormendo muoveva le orecchie.
Polly, la burbera, era la mia vittoria segreta. Il fatto di essere amata senza aver fatto niente le rimaneva incomprensibile, ma se ne era fatta una ragione, e la cosa non le dispiaceva affatto. Aveva cominciato a fidarsi. Non scappava più: si avvicinava. Veniva a sedersi al mio fianco e stava zitta. Con il tempo permetteva persino a Molly di sdraiarlesi accanto, e di mordicchiarle affettuosamente le orecchie. Squittiva di piacere. Al mattino, la sorprendevo a saltellare di gioia al mio apparire.
Mentre la accarezzavo aveva preso ad autotrasportarsi in un posto tutto suo: il pianeta dell’oblio, quello dove si dimenticano i traumi passati e le ingiustizie subite. Si abbandonava completamente, e si risanava un po’ di più. Mentre viaggiava con lo spirito, le veniva l’occhio matto, quello del piacere esagerato e godereccio. Avrebbe vissuto così per sempre.
E invece.
Un precedente
Quando ero una ragazzina senza voce in capitolo sulla vita, a casa avevamo un cane, un animale dolcissimo. La mia famiglia, nella quale convivevano svariati problemi mentali e relazionali, di punto in bianco decise che per motivi arcani non lo voleva più, e il cane fu ricollocato. Sieg Heil.
Perciò, quando ho dovuto riaffidare Polly e Molly per l’unica ragione più grande di me (trasferimento imprevisto da un continente all’altro e un lungo viaggio aereo al quale, data la loro natura, non sarebbero mai sopravvissute), lo conoscevo già quel triste senso di vergogna, di sporcizia morale, di lordura interiore che si instaura nell’animo sin dal primo momento in cui capisci di essere costretto a lasciare andare il tuo animale. L’impotenza, la frustrazione, il cuore spezzato. Da adulta, artefice delle tue azioni, è anche peggio.
Come glielo spieghi? Cosa racconti, a quegli occhi buoni e interrogativi? Come impartisci al tuo corpo il vile comando di depositare il trasportino in mani altrui, pur fidate?
Come riparare lo spirito da una tristezza che, pur non essendo quella di un lutto, di certo è ancora meno nell’ordine naturale delle cose?
Piango perché mi mancano da morire; sorrido perché ho vissuto una cosa speciale, che non a tutti è data. Non so se ne guarirò mai, ma va bene così.
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