Quando la normalità è un’altra
Ho assistito a un quarto d’ora speciale, alla fine del quale persino Lucy, acquattata ai miei piedi, aveva gli occhietti lucidi.
Per il ciclo “Diversity in the workplace”, momenti di sensibilizzazione sull’inclusività nel mondo del lavoro, il ragazzo disabile che lavora al piano terra è salito nel mio reparto di giovani e meno giovani virgulti per raccontarci della sua condizione. Stessa mia età all’anagrafe, mezzo bloccato, occhi divergenti, da una sedia a rotelle ipertecnologica come quella del Professor X ha fatto il discorso più normale tra tutti quelli che abbia sentito da molto tempo.
Il suo atteggiamento verso la complessità e l’impaccio della sua diversità non era per niente ritroso né vittimista. Ha spiegato dettagliando: “Io sono affetto da ciò, il che mi rende così e così, non è colpa mia; ci sono persino dei lati positivi, fermo restando che non ho scelto di essere così, me lo sarei evitato volentieri”. Tutto più che normale, direte voi: certo, ma ultimamente frequento un mondo a testa in giù così strano che la normalità e la ragionevolezza mi lasciano stupefatta. Lacrimucce di liberazione e gratitudine.
Il mio turno
In un impeto di ispirazione ho mandato un’e-mail al supervisor: “Sooo inspiring, posso fare anch’io una cosa simile? Per il ciclo salute mentale, stress post-traumatico e depressione, al vostro servizio!”.
Pensavo di lavarmi la coscienza con un’offerta che sarebbe stata bocciata, perché mica mi posso/voglio paragonare a qualcuno dalla disabilità fisica così evidente e invalidante; e invece la risposta è stata “Sì, excellent! Facci una presentazione, purché non sia troppo traumatico per te”. Oddio. L’ha detto davvero? E devo davvero parlare in pubblico di certe cose?
Perciò eccomi qui a prepararmi. I miei porcellini d’India scorrazzano per la cucina squittendo, entrando e uscendo dal loro tunnel colorato, ricolmi di apparentemente immotivata felicità (l’ho già detto che gli squittii di benessere dei porcellini sono una delle migliori pet therapy al mondo?); mentre io, al tavolo, metto insieme un discorso. Stavolta per il mondo reale, niente tastiera né schermi (in inglese, poi, allegriaaa… !). Presumo che uscire dal mio, di tunnel, passi anche da momenti come questi.
Sarà il giorno perfetto per indossare con nonchalance la mia spilletta rosa con scritto in un bel corsivo ricamato: “Disagio”, che per gli anglofoni probabilmente significa qualcosa tipo “tulipano” o “romantica”. Una volta ci ho fatto pure un colloquio, con questa spilletta, e mi hanno presa.
Il PowerPoint sulla mental illness è pronto. Rileggendolo mi viene da ridere, c’è un elenco di sintomi da caso umano. Però è tutto vero, o lo è stato; e io voglio che la gente sappia, e che non lo creda più così anormale.
Ribellarsi alla propria condizione prevede anche questo, giusto? Smettere di vergognarsi, rifiutare i tabù? Uscire dalla comfort zone e fare qualcosa per educare le masse? (Oddio, come se la gente che mi ascolterà domani fosse vagamente umana, e soprattutto una massa… non esageriamo, ma non è il caso di andare troppo per il sottile!).
Se capiranno un po’ cosa significa vivere un trauma e ammalarsi di conseguenza, nella testa ma anche un po’ nel corpo nonostante non si veda, e soprattutto se capiranno perché quando li vedo ridere tutti in gruppo sembro il Grumpy Cat, un po’ sarà servito.
La settimana prossima fanno quattro anni, perciò sono già entrata fino al collo in “quei giorni lì”: quelli che precedono la data, quelli in cui ogni tanto mi irrito e piango un po’. Tipo premestruo, ma con i morti veri.
Pochi giorni dopo il 13 novembre 2015, mi hanno presentato una sopravvissuta all’esplosione di una bomba in un ufficio governativo. Abbiamo chiacchierato un po’ e lei mi ha avvisata: “Ci ho messo sette anni per riprendermi del tutto, preparati a una cosa lunga”. Oggi capisco quello che intendeva. Piano piano. Piano, piaaano.
Quello di domani è il mio prossimo passettino, sempre che all’ultimo il proiettore non si rompa. Ah no, non siamo mica in Italia!
Sigla!
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