Se anche voi avete mai pensato a come sarebbe avere la coda umana, questo post è per voi.
Come nasce: svegliandosi in un vispo mattino melbourniano, la mia Lucy ha scoperto di aver patrocinato cento post del blog, tondi tondi. Si è messa a ruotare di corsa su se stessa, felice, come il cane quando si insegue la coda, solo che lei non ha la coda – il sedere del vombato è troppo duro, dovendo servire alla bisogna da scudo integrato per tappare l’accesso alla sua tana. Uno scudo con la coda? Meglio di no.
Della mancanza di coda umana
Il che mi riporta al senso di lutto che mi assale al pensiero che nemmeno noi umani siamo dotati di quest’espressiva, sinuosa, utile, volendo prensile parte del corpo. Se invece così fosse stato, la moda se ne sarebbe subito impossessata, come di ogni altra parte dei nostri imperfetti e freddolosi corpi, e noi tutti per la nostra coda umana avremmo potuto godere di un accessorio da urlo per ogni nuova stagione autunno-inverno: il copricoda.
A volte mi perdo a immaginare quanti copricoda fashion avrebbe potuto ospitare un guardaroba femminile (ma anche maschile) oltre a sciarpe, scarpe e borse, e mi pervade un inconsolabile senso di ingiustizia. Copricoda colorati, total black, coordinati; fluo e rétro per la mia vita in Australia, senza timore di giudizi di cattivo gusto poiché quaggiù tutti si vestono male.
Ci avete mai pensato? Avere la coda! Sedili con buchi o nicchie di design, pensati appositamente per metterci la coda umana. Stigma sociale tutto italiano per piercing e tatuaggi sulla coda. Code ondeggianti all’unisono ai concerti. Per non parlare del piacere di intrecciarla con quella della persona amata, mentre si torna dalla spesa con i sacchi pieni e le mani occupate. L’assenza della coda umana è la prova che non siamo fatti a immagine e somiglianza della Perfezione.
Lucy invece, pur essendone sprovvista, sta benissimo così, e anche in questo è un wombat fortunato.
Come consolarsi di non avere la coda
Per festeggiare il centinaio di articoletti a cui ha fatto da mascotte le ho dato una pannocchia, che ha accuratamente spolpato. Intanto io, che evidentemente non so stare senza contraddire i miei propositi, imparare cose nuove e accertarmi del disagio sociale che fluisce possente, ho azzardato una mossa rischiosissima: ho aperto un profilo Instagram. Per far conoscere un po’ di più questo blog, e per certe mie foto del mio habitat australiano che vorrei mostrare, ma che non trovano spazio né qui né su Facebook. (Segretamente anche per guardare, nei momenti di sconforto, grosse quantità di video di cacatua).
Dalla coda umana a Instagram
Però. C’è un però.
Un blog è uno spazio personale, e una pagina Facebook può avere anche lei una certa precisa identità. Ma Instagram? Instagram è la moltitudine, l’infinito, la serialità. Di fronte a Instagram rimpiango l’horror vacui, le regioni di mondo inesplorate, la luce rossa sulla porta della camera oscura, l’attesa, il negativo bruciato. C’è tutto, troppo, uguale. Il singolare inglobato nel plurale, ma con due hashtag separati. E poi ci sono i travel blogger. Migliaia. Molti bravi. Molti “Oggi vi porto a”. “Oggi ti svelo”. “Turista o viaggiatore?”. “Insegui i tuoi sogni”. “Noi che viaggiamo”, “Uno stile di vita”.
L’unica cosa che manca davvero, su Instagram, sono il logos e le fotografie ritoccate dei copricoda.
Domande in coda
Instagram e i suoi miliardi di cancelletti mi sbattono in faccia tutte le contraddizioni del reale: la sovrappopolazione, l’abitudinarietà, la manomissione. Sembrano chiedere implicitamente: “Perché proprio tu? Dove ti situi? Cos’hai da offrire di speciale?”.
Di recente, sedevo in una stanza insieme ad altri. Ci è stato chiesto: che differenza volete fare nel mondo? Ci sono state solo non-risposte o mugugni confusi. Con altrettanta perplessità, ho replicato di non avere la pretesa di cambiare il mondo, ma di tenerci che una qualsiasi persona, dopo che ho fatto qualcosa per lei, vada via di umore migliore rispetto a quando era arrivata. È troppo poco? È mancanza di ambizione? Di speranza? Dovremmo tutti voler essere dei piccoli Greta Thunberg, dei giovani fotografi di buchi neri, dei rodati megainfluencer, dei benefattori su scala mondiale? Dobbiamo farci carico di questa responsabilità? È giusto che ci venga chiesto? E ancora, tutto deve per forza passare attraverso raccolte di immagini e parole chiave? Autocertificarci al mondo è sufficiente?
Una voce può sostituire un autoscatto? Oppure si possono mettere a tacere per un attimo l’ipervigilanza e le domande ansiogene, dimenticando l’universo del sapere parcellizzato, degli individui atomizzati, per mettersi a rimirare spensierati le ultime stories altrui e immaginare un mondo sempre in perfetta buona fede?
E soprattutto perché, volendo, potrei non solo photoshoppare i miei zigomi, ma cambiarli con qualche aiutino persino nella realtà, e però non posso in nessun modo farmi spuntare la mia flessuosa coda umana?
Che poi, la motivazione principale per cui vorrei tanto avere la coda non l’ho ancora nemmeno scritta: è la facoltà di scodinzolare. Nonostante tutto.
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Grazie e buona lettura! 🙂
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