Ripercorriamo la mitica storia del fuggiasco William Buckley, che visse tra i nativi australiani adottandone i costumi. Esplorando un posto speciale: la Port Phillip Bay, la baia più animata di tutta l’Australia.
La fuga di William Buckley
In Australia, quando ci sono zero possibilità di riuscire a fare qualcosa, si dice che si ha “Buckley’s chance”, o anche “Two chances: Buckley’s and none”. Cioè più zero di zero.
Sotto sotto, in realtà, il detto resta possibilista, perché il tale William Buckley era uno che di chance non ne aveva nessuna eppure in qualche modo l’ha sfangata. Ancora oggi si parla della sua leggendaria impresa.
Buckley era un galeotto inglese spedito in Australia ai tempi degli insediamenti primo-ottocenteschi, condannato a quattordici anni di lavori forzati per un trasporto illecito di stoffe (!). Un bel giorno, quando Melbourne non era ancora stata inventata, fuggì dal suo accampamento e si diede alla macchia, anzi al bush.
Quasi due secoli dopo, mentre venivo accompagnata a esplorare la baia di Port Phillip per un “famil” (un’uscita professionale di familiarizzazione con un territorio) mi sono sorpresa a pensare a lui con somma invidia.
Vita in esilio tra i nativi australiani
Invece di onorare il celebre ammonimento “in Australia ogni cosa può ucciderti”, e di crepare subito di buon grado come i tre compagni di evasione, Buckley dopo trentadue anni di silenzio ricomparve di fronte ai nuovi colonizzatori, all’incirca i figli di quelli da cui era scappato, con una storia da far cascare la mascella. Ma prima, un accenno alla beata solitudine n°2, la mia.
Riscoprire la solitudine
Ultimamente mi è successa una cosa commovente: ho ricominciato ad apprezzare lo stare da sola, una pratica in cui ero particolarmente brava in un passato ormai mitico. È stato come la conquista della luna, dopo mesi, forse anni, in cui la mia mente era talmente danneggiata (riassuntino qui) che il mio sommo desiderio, semmai, era dormire. Eufemismo.
Invece, stare soli e goderne, per me, è una delle sensazioni più appaganti al mondo. La rassicurazione del sentire i propri piedi mobili eppure ben piantati a terra; del sapere di avere tutti gli strumenti per affrontare quel che viene; del lasciarsi cullare dal contesto come un contenitore ampio e robusto, pronto ad accogliere, immagazzinare ed elaborare ogni cosa, e perciò del non essere mai davvero soli; e del poter decidere liberamente quando porvi fine. Una delizia.
Pensare un po’ in una lingua e un po’ in un’altra, e lasciare che la propria mente mescoli tutto senza confondersi. Forse è tutto assolutamente normale, ma io non me ne ricordavo quasi più, e ora ne godo porcinamente, con voluttà. Come se avessi perduto Auryn, il mitico amuleto protettore, finché Falcor, il Drago della Fortuna, non me l’avesse ritrovato e riconsegnato. Quante chance c’erano? Buckley’s.
Evasioni nella baia di Port Phillip
In questo nuovo stato mentale, appena sbocciato e fragile come un rarissimo virgulto da proteggere dalle intemperie, ho preso parte all’amena gitarella in pullman per esplorare alcuni punti di interesse regionali. Una carovana talmente ricolma di gente cianciante e urlante che la mia psiche, di solito gioviale e partecipativa quando è in ballo la scoperta di luoghi, ha reagito nel modo più pacato possibile: con un maestoso e silente attacco d’ansia.
“Buckley, dove sei?”, invocavo mentalmente. Mentre al microfono riassumevano la sua storia di interazione con i nativi australiani, io, che già la tenevo in gran considerazione, mi perdevo in fantasie di emulazione da dietro ai miei occhiali scuri. Sognavo di fuggire dalla gente e di tornare, espertissima in tecniche di sopravvivenza, una generazione più in là.
È andata a finire che, nella pausa pranzo, mentre gli altri sceglievano i souvenir, mi sono imboscata (letteralmente) da sola nel bush, ho rimirato un sacco di pappagalli rossi volarmi intorno, e ho ripreso a respirare.
Sopravvivenza di William Buckley tra i nativi australiani
Ma torniamo al nostro fuggiasco n°1. Dopo aver vissuto a lungo in una grotta, Buckley continuò ad allontanarsi, finché non trovò e raccolse una lancia aborigena e ne fece un bastone da passeggio. Alcuni indigeni, vedendolo arrancare e riconoscendo la lancia, credettero che si trattasse della reincarnazione viso-pallida di un loro antenato; così lo presero con loro, trattandolo con la massima cura e simpatia.
Lui, ovviamente, pur perplesso, si guardò bene dal tornare dai suoi sguaiati compagni originali, stanco probabilmente dei loro canti di gruppo simili a quelli del mio pullman. Rimase nella più raffinata tribù di nativi australiani per una vita, ebbe pure un paio di mogli. Ma di sicuro poté continuare a sentirsi anche un po’ solo, quanto bastava per non impazzire.
Come i nativi australiani amarono Buckley
Finché una trentina d’anni dopo, nella zona in cui adesso sorge Melbourne, non si presentarono i coloni britannici che, mentre tentavano a gesti di contrattare con gli aborigeni l’acquisto di quel territorio per stabilircisi, videro Buckley, vestito di pelli di canguro all’ultimo grido. Non poterono che perdonarlo, trovandosi nell’impellente bisogno di un interprete!
E fu così che Buckley, pur orrificato nella segretezza del suo animo, decise che se proprio doveva tornare insieme ai suoi vecchi soci, almeno era il caso di condividere con loro cose interessanti. Divenne quindi un gran divulgatore di aneddoti e informazioni su usi e costumi dei nativi australiani, che nessun altro bianco a parte lui mai conobbe con i propri occhi. (Essendo lui analfabeta, della scrittura si occupò il giornalista John Morgan, nell’ormai classico The Life and Adventures of William Buckley).
Rimase come una sorta di guida e consigliere. Dopo un annetto, però, già si ricordò del perché fosse scappato la prima volta: i maledetti canti di gruppo! Allora fece i bagagli e se ne andò in Tasmania, e lì rimase. La Tasmania è sempre una buona idea, quando hai bisogno di tirare il fiato.
(Infatti ho appena prenotato il mio quarto viaggio laggiù, ehm ehm!).
THE END
La mia visita
Vi lascio le mie foto preferite dei due lembi della Port Phillip Bay. Un fortino militare con viste spettacolari (Fort Queenscliff), un attraversamento in traghetto per passare da un lato all’altro dello stretto (dalla Bellarine Peninsula alla Mornington Peninsula), una collina-belvedere con funivia (La “The Eagle” nel punto panoramico di Arthur’s Seat), e un mare sempre verdissimo e così meravigliosamente profumato da starci male. C’è persino un megafucile anti-carro armato chiamato W.O.M.B.A.T.!
Se siete da queste parti, è una bella gita fattibile in giornata, non proprio in solitudine o in compagnia di sordomuti ma almeno, possibilmente, senza canti collettivi da spiaggia!
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Grazie e buona lettura! 🙂
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