(all images credit: 8-bit Stories)
Il mio pianeta è iridescente, vaporoso nel silenzio interstellare. Ha infiniti emisferi, sinapsi violacee e sdrucciolevoli; anelli indulgenti e luminosi, sedici, come gli anni che compio ancora e per sempre.
Sul mio pianeta ogni cosa non si fa né si osserva; con branchie sorridenti ci si nuota dentro, diventando i se, i sì, i con. Tutto è dismisura e mai strappo.
Il mio pianeta ospita la fioritura uterina, le vocali soffuse, i petali alati; le migliori intenzioni, lo zenit, le suture.
Consacra i semi, l’agnizione, la morte termodinamica dell’universo. Sopravvive.
Odora di dolore rosato, di piacere bianco, di lampone e di ovatta.
Sul mio pianeta niente è ridicolo e tutto è necessario. Nessuno manca, gli occhi e i raggi e le frasi coincidono.
Climax e anticlimax proteggono la formula: sospensione, rinvio, ripetizione ed esattezza. Nero non ce n’è, dietro un’eco di scintille. Solo germogli in gelatina; proiezioni di iperboli, spirali, decisioni che si incontrano all’infinito, per scoprire che avevano ragione. Bende non esistono.
Abitare il mio pianeta basta a riempire una vita, liquida e perfetta, ma non quella meglio spesa.
Ogni tanto riscendo sulla terra – si chiama ipomania.
Sogno un nuovo big bang, una nuova assegnazione, neurotrasmettitori fedeli all’equazione; oppure un letto bianco numerato, un pigiama azzurro e un monitor irradiante, più uno scafandro spaziale con quanto basta di ossigeno.
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