Sydney, spiaggia e perfezione! Se ti sei perso la prima parte: inizia la visita qui!
Verso l’oceano
È domenica e a Bondi Beach ci vanno tutti, con gli asciugamani in spalla e le tavole da surf con la custodia di marca, accodandosi per uno dei rari autobus (sempre con calma e rispetto, Italy non mi manchi!).
In una logica da la volpe e l’uva, io e A. oltrepassiamo la fila con fare smart e andiamo a piedi, che finché funzionano tanto vale usarli. E perché certi dettagli si notano solo da una passeggiata ad altezza suolo (come un sorridente wombat nei panni di testimonial sui manifesti della pubblicità progresso pro-riciclo, o le inquietanti insegne delle diffuse cliniche per la cura del cancro alla pelle).
I colori di Bondi Beach
Un sobborgo già balneare, rallegrato da orgogliosi murales (comunque ben lontani dai capolavori della street art di Melbourne), chioschetti alimentari e ostelli variopinti, preannuncia LA spiaggia. La strada va giù, e in fondo a tutto quanto, il confine tra cielo e mare appare altissimo, come un’onda alla Interstellar che stia per arrivare a inghiottirsi tutto e anche noi.
E finalmente avvicinandomi scopro cos’è l’oceano, quello vero, già intravisto dall’aereo: solo mare, mare e basta, che ti rapporta con l’intero pianeta e non solo con una sua parte. Che l’orizzonte è curvo l’avevo notato già da qualche parte in Europa, ma qui è diverso. Più grande, inclusivo. Come la corte di un’alternativa Roma che troneggiasse sull’oceano e piegasse tutti al suo volere.
Sydney: spiaggia, bellezza e stupore
E capisco perché Bondi è detta la spiaggia democratica: c’è posto per tutti. Per il surfista esperto con la muta e per il cinesone tarocchissimo che vaga senza meta col carrello della spesa. Per il pensionato abbronzato che viene qui sin da bambino e per la coppietta brasiliana in luna di miele. Lo spazio vitale qui è ancora di tutti, ed è bello trovare conferma del fatto che il concetto di “affollato” si fondi su una soglia diversa secondo gli italiani o gli australiani – meglio così per noi.
Camminando sull’azzurro
Verso sud parte una generosa Coastal Walk, sotto un sole cocente ma non invalidante e un vento benevolo, che quasi quasi convince del fatto che sì, questo mondo è effettivamente stato creato per noi prima di tutto. Perché solo da quassù si rimirano così bene quelle onde larghe, smodate, tutti quegli azzurri, quei verdi, quei fiori in primo piano, quella roccia lavorata da una natura fruibile da pupille soprattutto umane e capace di suggerire che sì, c’è storia molto antica anche qui, altro che First Fleet. C’è un sentirsi perfettamente incastonati e luccicanti tra gli elementi, liberi e in risalto, come un brillante su un anello. È un momento a sé, di pura rilucenza dentro e fuori dal mondo, e perciò di quelli che rimarranno. Prendiamo l’autobus per il ritorno che il brillante ce l’abbiamo dentro.
I Royal Botanic Gardens… E i pappagalli
Ai Giardini Botanici la gente normale va per rimirare la flora, io per trovare i cacatua. So che a loro questo giardino del centro piace (ho fatto le mie ricerche!), e sogno il mio incontro ravvicinato. Ho persino sottratto una monoporzione di gustosi cereali Kellogg’s dall’hotel per portarla a loro! (Naturalmente quando adotterò uno di questi meravigliosi animali, il nostro rapporto si baserà sull’amore e non sulla gratificazione gustativa. Ma oggi non c’è tempo, e comunque era una tantum, giuro).
All’omino dei souvenir chiedo, con la voce incerta della bambina che nello spot chiedeva un Happy Meal, per favore!!: “Scusi, dove posso trovare i cacatua?”, per ricevere in risposta solo uno sguardo allarmato e una spiegazione rabbonitrice sul fatto che sai, loro volano, si spostano, quindi dipende! Dopo un po’ di giri tra gli alberi con l’anima in pena, nel sentore che senza cacatua mi metterò a sclerare come un Dustin Hoffman autistico, ne individuo finalmente uno stormo su un grosso eucalipto, intento a degustarne collettivamente le foglie.
Mentre io e A. li attiriamo lanciando in aria manciate di cereali, mi sento un po’ la signora dei piccioni di Mamma, ho perso l’aereo! e sorveglio che non ricompaia l’omino dei souvenir a intimarci di smettere di diffondere carboidrati nell’etere senza motivo apparente.
Invece la nostra ostinazione viene premiata. I cacatua volano giù dall’albero tutti insieme, incuriositi, col becco tutto sporco di foglie verdi, educati, giocherelloni e sempre vigili. Li nutriamo e ci lasciamo fare i dispetti (uno di loro mi mordicchia da dietro e appena mi giro fa finta di niente), squagliati di appagamento. Tra gli sguardi gelosi degli altri visitatori sprovvisti di cibo e quindi di pappagalli. A. se ne ritrova uno sulla spalla e sorride beato folgorato d’amore come San Paolo sulla via di Damasco. Se c’è un paradiso, è dove siamo io, lui e i cacatua. Check. E ora, risolta la priorità, un incontro ancora più intimo:
L’Opera House, meravigliosa visione
Il complesso di vele che mi sorge davanti non è certamente lo stesso ammasso di lucine bianche sbiadite che scorgevo la sera prima da lontano. Oggi davanti ai miei occhi c’è un grumo di spettacolo tutto ammantato di mattonelle, un bocciolo, un fuoco d’artificio, una tribù cangiante. Come ti muovi, si muove con te e ti segue, sempre uguale e diverso, grandiloquente e ineffabile, lui che un tempo non c’era e adesso durerà più di te. Gli giro intorno da ogni lato cercando di scoprirne la falla, ma la falla non c’è, come in ogni perfetta irregolarità. Prima è tutto attaccato, poi ti sposti e lui pure, si separa, si sfalda, si schiude, poi torna unito.
Ci torno e ci ritorno anche il giorno dopo, da terra e da mare, per cercare di comprenderlo, di memorizzarne le direzioni, di scomporlo e ricomporlo. E mentre quasi piango per la commozione penso sorridendo “f******, sei riuscita ancora a sorprendermi”. E metto una crocetta in più non solo sulla mia bucket list mentale, ma soprattutto su questa vita, su ricordi che credevo inarrivabili mentre se ne creano di nuovi. Perché anche di questo meraviglioso coaugulo di vele posso dire: fluctuat nec mergitur. Bevo vino seduta lì sotto a testa in su, con queste valve di qua e il ponte di là, sole e nubi sulla testa, ed è uno di quei momenti in cui un futuro c’è di nuovo. Perché sono felice, perché c’è tutto quello che ci deve essere e più del previsto, e perché il benessere non è là nelle vele, ma in me.
Ripartire
Subito prima di andare via, a coronare quest’attimo strappato, l’inevitabile monito: un gabbiano me la fa addosso. “Plic!”.
[Post aggiornato il: 22/07/20]
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