Il mio professore di greco aveva un cognome in latino, due braccia muscolose, tre lauree e un’improbabile pettinatura grigia a scodella, simile alla tonsura dei monaci. Era incasellabile già nella presentazione.
Si pavoneggiava declamando a memoria con la sua vocetta stridula lunghi pezzi di odi pindariche; faceva gesti istrionici, come scagliare improvvisamente il gessetto contro la lavagna per spiegarci una preposizione, esclamando “questo movimento, la tratta da qui a lì, questo è πρός”.
Ci raccontava storie di antichi eroi moderni, come quella del poeta Archiloco, che prossimo alla sconfitta in battaglia mollava lì il suo scudo in pasto agli avversari e se la dava a gambe per salvarsi la pelle, liquidando la peggiore onta dei tempi con una pernacchia alla Alberto Sordi e uno “Sticazzi! Still alive!!”, rivoluzionando così il concetto di onore. O quella dell’eroe Aiace che, per burla divina, scambiava un tranquillo gregge di ovini per dei nemici, e ne faceva una strage così ridicola da vedersi poi costretto a conficcare uno spadone nella sabbia e a gettarvisi sopra, autoterminandosi per la vergogna. Andai a leggermi e rileggermi il libro; ero folgorata, ancor più dal suo racconto che dal testo di Sofocle. Avrebbe potuto farmi assorbire qualsiasi cosa.
Il mio professore di greco mi ha insegnato che per intendere “brutta”, dire “non bella” è una litote, e che la diplomazia della litote è inestimabile. E che l’ironia è il suo inverso, è usare “bella” allo stesso scopo – quella è la vera ironia, classica e di classe, non una battuta sguaiata.
E mi ha insegnato a scrivere. Diceva: non importa se non sai tradurre precisamente questa e quest’altra parola; ma metti la frase in un buon italiano. Se anche non capisci un pezzo della versione, scrivi qualcosa, quel qualcosa scrivilo bene, e mostrami che hai intuito. Sapeva che era questo, che più di tutto sarebbe rimasto. Si fidava di noi. Ma solo di alcuni. Di me e della mia compagna di banco sì: aveva deciso, chissà perché, che noi due potevamo essere autonome, e per un anno intero non ci interrogò mai. “Basta giocare a tris, voi due!” era il suo complimento per noi. Qualcun altro invece veniva interrogato a ogni lezione, tormentato, tutto l’anno. Una ragazza si sentì dire che tanto valeva che andasse a fare la cassiera, perché il greco non l’avrebbe saputo mai. Intollerabile per un liceo bene, diverso dalla gretta provincia; la ragazza pianse e cambiò scuola.
Il mio professore poteva essere meraviglioso e incoraggiante, ma pure uno stronzo patentato, con la stessa imprevedibilità con cui a volte, in pieno inverno e senza riscaldamento, entrava in classe in maniche corte spalancando tutte le finestre e costringendoci a far lezione nel gelo padano. I miei compagni amavano imputare quelle sue improvvise vampate di calore all’assunzione di quella sostanza tanto amata dalla dea greca Pollon, ma io rifiutavo di pensarlo. Un giorno, per protesta, la mia compagna di banco fece trovare scritto sulla lavagna a caratteri cubitali “LO STUDIO RENDE LIBERI”. Lui si incazzò molto, per la hybris di qualcuno e per l’omertà di tutti gli altri, ma sapevo che non era per davvero. Amava troppo l’intelligenza, in tutte le sue forme.
Ovviamente, nella mia suggestionabilità adolescente, avevo una malcelata cotta per lui (che cliché, lo so, lo so). Al mercoledì e giovedì c’era greco e andavo a scuola con le lenti a contatto al posto degli occhiali; gli altri giorni no. Così per tre anni. Gioventù.
L’anno dopo la maturità seppi che il prof aveva appena sposato una mia ex compagna di scuola che aveva solo un anno più di me. Non riuscivo a capire. Lui era più che quarantacinquenne. La mia cotta per lui non apparteneva al mondo reale, come poteva veramente sposarsi con un’ex allieva? Su che basi? Su quale pianeta?
Più in là seppi che dopo si era sposato un’altra volta, con un’altra ragazza della stessa vecchia classe. Bellissima come la prima, naturalmente, di quelle che tutto il corridoio si girava a guardarle, altro che lenti a contatto due volte a settimana. Non fui così sorpresa, quindi; poteva, almeno secondo la giovane me.
Qualche anno fa poi, lessi per caso la notizia che un facoltoso professore di liceo – il mio – era accusato di molestie da una studentessa, avvenute a casa di lui durante delle ripetizioni private. Rapidamente una seconda studentessa si era unita alla prima denuncia. C’erano state altre voci. Lui provò a dire che non era niente, ma sostanzialmente ammise. Grande scandalo e arresti domiciliari.
Continuo a non capire. Come si può essere un dio greco della sapienza, amare le arti sopra ogni cosa, e insieme molestare delle ragazze, le proprie, invece di guidarle? E come posso io pensare ancora a lui con affetto, quando il gesto di cui si è macchiato è tra quelli che considero più odiosi? Si sarebbero dovuti considerare quei matrimoni come un campanello di allarme? Nonostante la legittimità dell’atto ufficiale?
Eppure da qualche parte io lo amo ancora, e sempre lo amerò. Per me rimarrà l’uomo che conosceva tutti i miti, l’uomo delle litoti, della fiducia in me quando io non ne avevo alcuna – fiducia non per come fossi, ma per quello che potevo fare. E resta il maggior forgiatore di quel mio gusto in fatto di uomini, per cui più uno sa e discute di cose belle, più ai miei occhi la sua desiderabilità aumenta esponenzialmente. Rimane come una metafora della vita, che è insieme tanta bellezza e il suo contrario, anche quando è ingiusto. Quella vita che a volte deve rifiutarsi di farsi racchiudere tutta in un singolo atto, quella vita che pirandellianamente non conclude.
Il secondo (e primo cronologicamente) professore della mia vita è esistito solo in un romanzo. Uno di quei classici che si leggevano da piccole, e che ancor prima ci leggeva la mamma, poco alla volta, la sera prima di dormire, una volta, due, tre, finché non diventavano parte integrante di noi e delle nostre aspirazioni.
L’irrequieta protagonista americana, nel sogno di riuscire a vivere di ciò che scrive (anyone?), si ritrova a fare l’au pair in Europa. Con la famiglia abita anche questo appassionato e barbuto istitutore tedesco dal sorriso dolce: un essere puramente buono, incapace di malizia, un po’ impacciato con lei e con i bambini di casa, che lo adorano a prescindere dai doni che lui offre loro; disciplinato, un po’ svampito e pieno di entusiasmo per la nobiltà delle cose belle.
Lui e lei, una volta chiaro che sono fatti per stare insieme, se ne vanno ad abitare lontano da tutti, adottando svariate creature, umane e animali; leggendo, scrivendo e coltivando la terra. Di tutte le relazioni amorose mai lette in un libro, ho sempre pensato che la mia avrebbe dovuto assomigliare a quella lì.
(Se avete capito qual è il libro buon per voi, perché non lo scriverò :-P).
A guisa di conclusione, soltanto il dettaglio che con l’uomo con cui adesso condivido la mia vita, che per lavoro insegna, ama la retorica classica e il tedesco, e attira i bambini come il miele (e ovviamente ha la barba), ormai non solo abitiamo lontano da tutti, ma da ieri abbiamo anche un orto. Certo è tutto un caso, ma è un bel caso, non fosse altro perché è quello che è toccato in sorte a me. La famosa τύχη, come mi ha insegnato qualcuno. <3
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