Ben prima di sapere che nella vita avrei dedicato qualche attenzione al capire la moda australiana, c’era un’altra me. Iniziamo da lei.
[Post aggiornato il: 23/07/2020]
Chi ero prima di conoscere la moda australiana
Qualche anno fa, la mia amica C. è riuscita a mettere un nome su una sgradevole condizione cronica che da tempo mi affliggeva a mia insaputa. L’ha constatato con affetto e autorevolezza, tenerezza e sbigottimento, gli stessi con cui parlava a Squitty, il suo porcellino d’India:
“Tu ti vesti anni Novanta”.
Grazie a quell’osservazione così pregnante ho capito tante cose della mia personalità, arrivando finalmente a cogliere il senso di tutta una serie di outfit a dir poco discutibili di cui negli anni, pavoneggiandomi tra me e me, avevo fatto sfoggio, incurante dello sgomento generale.
Ora finalmente sapevo il perché di tutti quei colori troppo vivaci, di quegli accessori spropositati, di quelle forme senza capo né coda. Di tutta quell’allegria e plasticità indossate senza motivo.
Ero rimasta intrappolata negli anni ’90.
Imparare a vestirsi… e finire in Australia!
C. ci aveva visto giusto; come da manuale, la presa di coscienza è stata la prima tappa del trattamento dei sintomi psico-fisici. Seguita poi da un percorso di disintossicazione, e infine dalla guarigione. È stata dura, ma dopo sforzi durati anni e svariate ricadute, le mie mise si sono fatte più sobrie.
Poi sono andata a vivere a Parigi, e nella ville lumière, proprio come Audrey Hepburn in Sabrina, ho pian piano imparato a vestirmi davvero comme il faut. Nel mio guardaroba gli orridi capi anni ’90 si sono discretamente ritirati fino ad estinguersi del tutto, spontaneamente. Finalmente avevo gusto, ed ero circondata da persone di gusto. Tutto andava alla grande.
Ora immaginate cosa accade quando, dopo un tale sofferto itinerario umano di disintossicazione e ricostruzione, una si trasferisce in Australia.
La moda australiana: tendenze
L’Australia, e di questo non ci informa nessuno quindi devo dirvelo, è un paese interamente, compiaciutamente, smodatamente anni ’90. Per un sacco di cose, a partire dalla moda.
Rimembriamo insieme il settore “abbigliamento e accessori”: cosa c’era in Italia, negli anni ’90, che andava forte?
Il bomber.
La fascetta in velluto per il collo.
La salopette.
Il fluo (prima che tornasse di moda).
I fuseaux con l’elastico sotto al piede.
I sandali alla schiava con la zeppa di corda.
I cappellini con visiera portati al contrario.
Il cappello Panama.
Le scarpe da skate.
Le pettinature da spiaggia.
Le tute Adidas, il cappuccio.
Le lenti a specchio colorate.
I ciondoli che cambiano pigmentazione con la temperatura. Gli anelli cambiacolore.
Le collanine brutte, con il cordino nero e i delfini e i quadrifogli.
Gli smalti al massimo dei tre colori primari e dei tre secondari.
I tatuaggi tribali, i tatuaggi finti.
I tacchi alti quadrati.
Le forme e i colori sgargianti.
I video supersaturi di MTV.
Oltre la moda: costume e società
Le televendite di gioielli. Di tappeti. Di elettrodomestici.
I carrelli del supermercato abbandonati sui marciapiedi.
Le code all’ufficio postale prima dell’invenzione dei numerini.
Le cabine telefoniche.
Le Spice Girls. Il BritPop.
Le pubblicità delle linee erotiche in terza serata sui canali sfigati.
I negozi al dettaglio.
L’olio abbronzante.
Gli Hanson.
Il lotto.
I mezzi pubblici fatiscenti. Le auto sempre. Dieci benzinai per km quadrato.
Il consumismo pre-crisi, i regali di Natale per dovere, il ciarpame inutile. I soprammobili. I cesti regalo.
L’abbondanza, l’opulenza.
La raccolta differenziata solo abbozzata.
L’eroina. Le siringhe.
I libri e le agende di cucina.
Questa era l’Italia negli anni Novanta. Ora, cosa c’è nel continente rosso, nel 2020?
Tutto questo, identicamente. A partire dalla moda australiana.
Cosa significa vivere in Australia oggi
Per me, oltre all’ovvia immersione straniante, reimmergermi in questo pur nuovo mondo è stato come se un tossico, dopo un lungo e faticoso percorso riabilitativo al SERT a scalare col metadone, si ritrovasse improvvisamente in un bengodi fatto di siringhe individuali fornite gratuitamente e divanetti morbidi in dotazione. (E se la similitudine fosse stata una realtà, nei bagni pubblici australiani del 2020, accanto al wc e al contenitore per gli assorbenti, avrei trovato anche il comodo, apposito contenitore giallo per buttare la mia siringa usata!).
Per un po’ ho lottato. Ho cercato di restare concentrata sul mio delicato, appena sbocciato senso estetico.
Ma durante i primi tempi, giù a Melbourne mi sentivo fuori posto, con i miei abitini, le mie camicette rosa antico comprate a Parigi, le mie scarpe così belle, fini e discrete, i miei colori perfettamente abbinati.
E così ho ceduto. Come sempre, quell’ottimismo che mi porta a vedere qualunque cosa non (solo) come fonte di degrado ma soprattutto di opportunità, mi ha guarita dal disorientamento, indicandomi la miglior via da seguire. Dopo l’iniziale esitazione, l’illuminazione: non era il caso di farmi intimorire dagli anacronismi, ma di riscoprire la mia natura più autentica e primitiva.
La soluzione
Quindi, ho riappeso nell’armadio i miei graziosi capi, mi sono comprata una visiera Adidas (non il cappellino, solo la visiera) e con lo stesso entusiasmo di Jasmine che sul tappeto volante intona euforica “Il mondo è miooooo!“, mi accingo a coronare finalmente il mio sogno segreto: diventare Sporty Spice.
All good!
(Postilla per chi se lo stesse chiedendo: alla domanda “ma quindi in Australia, negli anni Novanta, cosa c’era?”, non ho ancora una risposta. Dato che dubito che gli anni Settanta li abbiano mai avuti, forse è meglio non sapere).
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Grazie e buona lettura! 🙂
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