Mezzanotte. Ricevo il suddetto messaggio sibillino e stanante. Mollo tutto ed esco sul balcone.
Mi si offrono, nell’ordine: sedia da outdoor con il pratico braccino per reggere il bicchiere di vino (valida alternativa al moccolo, nelle serate in cui sono sola e non dubito gli appartamenti adiacenti ospitare stormi di coppiette tubanti); plaid, binocolo, grilli e una smisurata, misurata eclissi di superluna; stelle a manciate e una quiete sospesa, benigna. Proprio come a Milano, insomma. Uguale.
Sospetto sia la ricompensa inviata da Zeus per le innumerevoli fasi lunari trascorse nel vespaio meneghino tra latinos ubriaconi, cinesi intruppati in dieci in un bilocale di prostituzione e malaffare, e famiglia perbene veneta dall’altro lato della parete che al primo incontro mi chiedeva con sospetto: “Ma siete italiani? Ma italiani italiani?”. Ovviamente fu subito chiaro che i veneti facevano più casino di cinesi e peruviani messi insieme, inestirpabili come la gramigna, durevoli come le grandi epidemie. E i loro cicli lunari li conoscevamo tutti, ché la nonna veneta amava comunicare dal balcone a tutto il firmamento: “La Sara, ha il mestruoooo!!”. Meglio il melting pot condominiale australiano dove nessuno saluta, non sia mai, ma almeno c’è si-len-zio, parcellizzato e corale (essendo i grilli non un vero suono, ma brillantini luminosi che adornano la calma). Anyway.
La superluna in penombra si mostra rossiccia, fulva, ruvida e rumorosa nel suo silenzio. Perché non so voi, ma a vedere questo cerchio così tondo, sospeso e placido, io ho il mal di spazio: non riuscendo a concepire la cosmica assenza totale di suoni, me la immagino con quello che conosco, col fragore.
Dopo una ventina di minuti fissi nel binocolo, la mia irrequietezza da animale della steppa si placa, perché non appena il satellite si oscura, in un bagliore residuo vengo a capo del nesso.
La luna periodicamente entra nel cono d’ombra. Non se lo va a cercare, né smette per questo di girare, ma accade. Non può evitarlo. Confonde lucidità e offuscamento, sonno e veglia, non riflette più ma rimugina al riparo da telescopi indiscreti, canticchiando nella mente what should I do, I’m just a little baby! what if the lights go out, and maybe…? E che avesse un suo caratterino lo si poteva già intuire dal nome, eclissi o eclisse a seconda di come (le) gira, così vi potrà sempre dire che lei non è come voi la definite. Anzi non ve lo dirà, ché l’eclissi non parla, ma ve lo farà capire, oh se ve lo farà capire.
L’eclissi è una modalità di relazione puntuale ed economica. Non si disperde in spiegazioni, saluti e notifiche. Si eclissa e basta. Non ne informa il mondo, è il mondo che ha imparato a prevederla.
L’eclissi nella sua vita precedente doveva essere il suo contrario, la ridondanza. Stava sempre là e quindi ora, per riequilibrare, ogni tanto dice arrivederci e grazie, oppure non dice proprio niente, sparisce e si riassesta. Lontana da tutto, dai peruviani e dai cinesi, dai veneti, dai milanesi, dagli australiani e anche da voi, ché l’eclissi non discrimina.
E poi riemerge, così, senza dare nell’occhio.
Quindi no worries.
Ho finito di scrivere e la luna è di nuovo là, più in alto, splendente, già dimentica.
“Les monstruosités font des ombres énormes
Jusque sur l’âme humaine et sur le firmament”
Victor Hugo, Éclipse
[Moon photo: from the Web]
Lascia un commento