Volevo scrivere di nuovo – di cose belle, di aria fresca, di sguardi più nitidi; ma non c’è granché spazio per l’io quando poco lontano quelli là sparano, i razzi piovono, i corpi si accumulano. Al momento, un blogghetto personale su amenità e fatterelli ha le mani legate, se vuole conservare la dignità. Parlo per me, certo.
“Perché allora non per la Siria, per Gaza, per tutto il resto del mondo?” – Se soltanto simili domande venissero poste per dolore autentico, e non per necessità di ventilare il cavo orale autocompiacendosi di una pretesa visione geopolitica più ampia (e dunque più indifferente, perché tanto, ovunque…)!
Con queste bombe qui, se ti consideri fortemente europe* almeno quanto sei ineluttabilmente italian*, ci soffri un po’ di più, perché i morti sono i tuoi. È la morale più antica del mondo: si basa sulla legge di prossimità, in-group/out-group, era già dei cavernicoli e ancora ce la portiamo nei geni. Non che questo funzionamento umano sia il massimo, ma tant’è.
Gridano, le immagini ormai normalizzate dalle prime pagine, con quei corpi accatastati che se pure stanno in foto, e quindi fermi di per sé, si capisce che sono morti, che non si rialzeranno più. E per chi ha già visto corpi veri assassinati, quelli delle foto si riconoscono ancora prima: storti come solo i morti, con accanto le borse, gente che potevamo essere io, tu, e invece sono lui e lei. E intanto i miei conoscenti (persino gli amici, maledizione, dove ho sbagliato?), tra un “Ma anche in Italia c’è la dittatura!” e un “Informatevi, penzate oltre le apparenze, ci ingannano!” continuano a condividere roba tipo l’itinerario del proprio weekend in barca, o consigli scafati su dove si mangia la pizza migliore. Non ce la faccio. Invoco la spada di Beatrix Kiddo a precipitare in un lampo su dita e tastiere. Solo il silenzio.
Que faire?
Bisogna pur vivere, ma cosa deve prevalere tra: rinchiudersi nella bolla fatata, o immergersi nella pozza putrida della realtà?
La domanda e la risposta le diede già la cara australiana Nicole Kidman, un tantino imbarazzata, appena le misero in mano il premio Oscar subito dopo l’11 settembre. “Perché noi andiamo avanti con le nostre cose, e ogni tanto facciamo pure festa? Perché l’arte è importante, e bla bla bla”. Non aveva torto. Ma aveva ragione?
L’importante è continuare a comprare, dirà qualcun altro, che solo per oggi ci sono gli sconti.
Al di là della parete della mia camera, i miei vicini mettono al mondo il secondo figlio – non uno, ma due!? Seriamente? Oggi? E quello piange, giustamente; come glielo spieghi il suo essere uscito proprio qui e ora invece di restarsene placido nel brodo primordiale? e che comunque è fortunatissimo, che poteva finire dritto insieme ai lui e alle lei di cui sopra, e invece liberamente frigna e strilla da un piano alto signorile milanese con vista area giochi? Mentre passeggio con il cane, libera da eredità da tramandare (o da accollare), osservo i bambini dondolarsi sulla giostrina inclusiva (sic) e prendo l’aria sbigottita di chi, mentre sorride di tanta gioiosa innocenza, intravede Skynet, ovviamente al ralenti. Sarah Connor sarebbe fiera di me; altri alzeranno gli occhi al cielo, pensando “ancora traumatizzata, datele una terapia che funzioni una volta per tutte” (spoiler: è in arrivo). Chi ha o ha avuto il PTSD reagisce peggio – che cosa sorprendente! – a fattacci tipo un assetto internazionale che va in merda. Si vive interpellati, in allerta, in preda alla nausea. Lo dice la scienza.
Fuori dal vaso
E poi questa cosa che proprio la Russia! Che l’ho studiata all’università e sognata e frequentata e che ci ho persino, grazie a lei, trovato marito; mi distraggo un attimo e quella diventa una megastronza proprio alla luce del sole (il primo che commenta “E il Donbass?”, “E i decenni precedenti?” vince la censura, ché sono troppo stanca per argomentare). Persino la mia storia d’amore, nata guardando a quell’evocativa sagoma lunga una decina di fusi orari sul mappamondo, ne esce sporca, insudiciata. Come si sono permessi. Non è questo che avevamo in mente noi due quando, con l’aria giocosa di chi ha accesso semiesclusivo a un mondo altro ed esotico, parlottavamo in russo per commentare la gente in metrò. Oggi ci arrivano notizie in quegli alfabeti, ci scambiamo occhiate e le parole non le abbiamo più, almeno non così sognanti.
Ho parlato lo stesso di me, alla fine; ma l’impasse resta.
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