Vi trovate (o prevedete di trovarvi) in Australia e siete in cerca del dettaglio definitivo che vi distingua?
Avete già escluso:
- la moto (ad ogni attraversamento guardate dalla parte sbagliata rischiando l’amputazione di un piede, figuriamoci guidare un ciclomotore),
- il running (è gratis, ma down under rischiate la liquefazione),
- il tenero cucciolo di Labrador (per rimorchiare, ma in Australia esistono solo cani brutti, e in più non vi aggrada la raccolta fecale ma avete pur sempre un’etica ambientale),
- la palestra (sareste fighi, sì, esattamente come tutti gli altri, sempre che vi facciate almeno 245 tatuaggi e osiate presentarvi ovunque, ma proprio ovunque, in infradito)?
La soluzione senza “ma”: prendetevi un monopattino.
Ovviamente non in Italia, dove se vai in giro con qualcosa di vistosamente distinto sei considerato un individuo meritevole non solo di chiamata d’allerta ai servizi sociali, ma anche di atti di scherno e bullismo su prescrizione medica.
E nemmeno in Francia, dove il monopattino ce l’hanno tutti (almeno negli stracolmi e lillipuziani spazi parigini) e quindi è come se non ce l’avesse nessuno, neanche voi.
Venite invece in Australia e fatevi il monopattino, con lo stesso spirito con cui certuni si fanno lo yacht, ma voi in più sarete democratici e non inquinanti.
Prima però bisogna chiarire com’è che a trent’anni e passa, a una le viene lo schizzo di procacciarsi un monopattino, prima che decidiate di mandarmeli voi, gli assistenti sociali o i bulli.
Origins #1
Nell’infanzia anni Ottanta, i libri illustrati di Richard Scarry erano pieni di monopattini.
Il mio volume preferito disegnava e acquarellava un mondo in cui ad ogni oggetto corrispondevano tre parole, in italiano, inglese e francese: Il monopattino, The scooter, La trottinette. Avendo già intuito precocemente che il mio futuro sarebbe stato costellato da monopattini oltre che da lingue straniere, chiesi a mia madre che me ne comprasse uno (ero una bambina timida e non osavo chiedere mai niente, ma davanti al monopattino proprio sragionavo e varcai il confine). E mia madre per tutta risposta replicò:
– “Te lo faccio io”.
– “Come, me lo fai?”
– “Sì sì. Prendo i materiali e te lo fabbrico”.
Per capire la stramberia di mia madre basti sapere che per il mio diciottesimo compleanno mi offrì in dono, con il sorriso più emozionato che le avessi mai visto, un mirabolante cestino da cucito, da lei tutto foderato a mano, dotato di comode falde per ospitare rocchetti, forbicine, aghi per rammendare e ricamare. C’era persino l’uovo di legno da infilare nel calzino per rattopparne più agevolmente il buco. Questa era mia madre.
Ora, una dichiarazione del genere avrebbe come minimo richiesto una chiamata di allerta ai servizi di salute mentale di cui sopra o al telefono azzurro, o per lo meno un’ammonizione da parte dello psicologo della scuola per aver osato illudere a tal punto l’ancora fragile psiche del fanciullo.
E invece no: io ci credetti.
– “Quando mi fai il monopattino?”
– “Presto! Tra poco incomincio a fartelo”.
Rassicurata dalla divina – per l’epoca – parola materna, mi chetavo ancora per qualche settimana, per poi tornare alla carica e avanti così daccapo. Non ero una bambina molto sveglia – da qualche parte devo avervi già detto che vivevo dentro a un uovo di pasqua da cui venivo fatta uscire molto poco rispetto agli altri bambini. E quindi nutrivo una certezza incrollabile sul fatto che prima o poi il mio monopattino sarebbe arrivato, esattamente come più tardi avrei temporaneamente riposto fede nella comparsa di un Segno dell’esistenza di Dio, della pensione per i Millennials, dell’arresto e inversione del riscaldamento globale e degli straordinari d’aprile di Biascica.
Il mio momento è arrivato quasi trent’anni dopo:
Origins #2
Una sera a Parigi sono andata a sentire un concerto e sono tornata a casa che potevo essere morta. Per tre ore in cui mi giocavo la vita intera, mi ero dovuta prendere cura di me stessa da sola, all’insaputa di tutti.
Nessuna figura materna o protettrice mi avrebbe fabbricato uno scudo per ripararmi dal Male, o un monopattino per allontanarmene più velocemente. Nessuno. Ma quel che più mi rivoltava era che avevo rischiato di crepare senza mai aver avuto il monopattino che mi spettava, perché io valgo (frase che, soprattutto dopo che hanno cercato di ucciderti, tendi a dirti).
E fu così che due settimane dopo, per la mia vita 2.0, possedevo il mio monopattino nuovo fiammante.
Con lui gironzolavo velocissima al grido interiore di “YOLO!!” dal Louvre a Montparnasse, dal Père Lachaise alla Bibliothèque Nationale; mi accompagnava anche alle sedute psy, dove mi aspettava reclinato sul tappeto mentre io mi analizzavo allungata su un bellissimo divano freudiano, incolpando di ogni male il cestino da cucito di mia madre. Non lo abbandonavo neanche la sera al pub con gli amici. Eravamo una coppietta, io e il mio fido ronzino a cui cantavo “Shine on you crazy diamond!” con occhioni a cuore. E anche coloro che inizialmente si stupivano, dopo aver sentito la mia storia mi sorridevano annuendo benevoli e la volta dopo mi salutavano più calorosi – forse giusto come lo sarebbero stati con un carlino smarrito, ma non mi premeva rilevare la differenza. Io e il mio monopattino eravamo felici, tra tanti altri monopattini e padroni di monopattini, e nessuno faceva caso a noi.
E perciò il monopattino è stato tra le prime cose che ho messo nel container per venire in Australia, insieme alla coperta elettrica (nel timore di un fantomatico freddo australiano, noto solo a me) e all’essenzialissima pentola cuociriso (ignorante del fatto che i maki roll, lo street food australiano più economico in assoluto, me li avrebbero tirati dietro ad ogni angolo di strada).
Ed eccomi qua. In Australia c’è spazio per tutto e per tutti, perciò girare in monopattino non è più un atto necessario o sovversivo, ma un genuino piacere consapevole e rigenerante. E anche raro ed esclusivo, ché qui sono stati introdotti i monopattini per ragazzini ma il modello da adulto rimane ancora sconosciuto ai più.
Peoplewatching. Chi si incontra a Melbourne in monopattino?
- Lo skater (sempre e solo maschio). Circola non solo sul lungomare di St Kilda, ma proprio ovunque in strada, sulla carreggiata come se possedesse un vero e proprio mezzo di locomozione a motore. Scorre veloce accanto ai SUV, spesso con uno zainone in spalla o con la birra in mano, da solo o in piccoli branchi. Mentre mi supera mi domando come faccia a non schiantarsi, e se nasconda un congegno meccanico segreto sponsorizzato dall’ufficio del turismo locale.
- La signora in Crocs a suola rinforzata e cappello a tesa larga con il cordino, che mi ferma chiedendo informazioni. Perché le fermate dei bus sono così collaborative che presumendo che uno il percorso lo conosca già, non lo indicano. O forse perché dopo anni di infopoint, continuo a sprigionare un ormone delle informazioni che gli sconosciuti fiutano al volo. Per ringraziarmi dell’aiuto esclama “I looove your scoooter!”, al che senza mentire le dico “grazie, anch’io!”, e le racconto tutta la storia dall’inizio.
- Il vecchietto venuto giù dalla farm a trovare la figlia che sta in città, che mentre si lamenta di tutti questi immigrati in giro, dimenticando di essere lui stesso immigrato, mi guarda passare a bocca aperta come un tempo altri vecchietti guardavano lo sbarco sulla luna. Non sa che un domani, quando il monopattino non farà più per me, farò mio il suo deambulatore, e scorrerà altrettanto amore.
- Il ragazzo di ogni età che loda ammirato il mio scooter e ne chiede tutti i dettagli tecnici. Dove si compra? Quanto costa? È comodo? Come si frena? Ogni tanto, dalla scheda del prodotto qualcuno inferisce che dovremmo uscire insieme, al che declino gentilmente e pedalo (monopattino? come si dice?) via.
- Il clochard amichevole che abita sotto la tettoia della biblioteca e che saluta sempre con la mano, “hi, how are you?”.
- La gallina del venerdì sera. Lo ammetto, con lei non ce la faccio, la odio. Mi promeno per le zone della movida ed è pieno di queste galline bionde alte due metri tutte scosciate e senza un filo di cellulite, strizzate dentro outfit a dir poco imbarazzanti, e che cianciano a base di “yeah!”, “that’s sooo great!” senza spostarsi per farmi passare nemmeno se la mia unica alternativa è visibilmente l’andare a sbattere contro un palo. Dovrei iniziare a portarmi dietro del mangime e a lanciarglielo.
- Gli stranieri (in gregge). Soprattutto francesi. Loro grazie al cielo mi vedono come un fenomeno normalissimo e si scansano, e intanto petulano su tutto il resto (sempre francesi sono!). Con gli italiani per fortuna scatta un mutuo e tacito riconoscimento tra connazionali, e ci si ignora reciprocamente con cortesia.
- Gente a caso che osserva il monopattino di passaggio e gli rivolge un convinto catcalling (a lui eh, non a me).
Fine, per ora. Vi ho convinto? No? Bene. Però tranquilli, se venite a trovarmi giuro che prendiamo la macchina.
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