Post inizialmente pubblicato sul bimensile Il Globo (1/02/’18), il giornale della comunità italiana in Australia. Cheers mates!! 🙂
Se anche non siete Millennials, ricorderete cosa accadde ad Ariel quando cambiò mondo, trasferendosi da quello marino di re Tritone a quello terrestre per darsi una chance. Al posto della coda squamata, ora aveva un paio di gambe nuove fiammanti; conservava la chioma rossa e gli occhioni da cerbiatta, e non aveva più la voce. O meglio: la aveva ancora, segretamente racchiusa nella conchiglia che portava al collo, ma non la poteva usare. Era il prezzo da pagare.
Quando sono arrivata in Australia, da prima ancora di accompagnarmi a un wombat, ero un po’ come lei. Il mio incantesimo non durava tre giorni, ma tre anni; avevo due gambe fresche per esplorare, riflessi rossi in testa e all’occorrenza lo sguardo cerbiattoso. Ed ero anch’io senza qualcosa, la cui assenza mi sbiadiva un po’. Qual era il mio prezzo da pagare?
Voi direte: l’idea di Europa, nella sua raffinatezza stratificata, nelle volteggianti triangolazioni aeree tra una capitale e l’altra; il non essere costretta a pagare il doppio di un local per prendermi un diploma; la gente che sa ricordarsi di spegnere la luce perché sennò si spreca, o che conosce la posizione almeno approssimativa dell’Ucraina o della Finlandia.
O i virtuosismi made in Italy, un affresco grandioso scovato in una chiesetta dall’aria innocua e il vino che mio suocero imbottiglia e poi assapora, estasiato ed elegante come re Tritone. E il sapermi destreggiare dove tutto è sottile e ingarbugliato, una secolare partita a shangai. Ma queste carenze le ho sempre accettate, pago il dazio; e la risposta è un’altra.
Quello che mi mancava più di tutto viene da dentro, e non si acquista da Woolworths, ma nemmeno si raggiunge in aereo, né lo spedisce a casa il consolato insieme al plico elettorale. Mancava, anche a me, la voce.
Di cosa è fatta una voce? Una voce, sigillo individuale sanguigno e non permutabile, è cuore, sguardo, lingua. Come tale è una e trina, e non mente mai. Cuore e sguardo, chi più, chi meno, li abbiamo tutti; quindi, sensibilità e visione del mondo – check. Ma la lingua? Non l’organo, ma la capacità di esprimersi secondo una certa categorizzazione della realtà, diversa per ogni paese: che ne è di lei? Come si ottiene? Perché a cosa serve guardare alle cose e sentirle, se non le puoi ridire come vorresti? Se non sai restituire l’iridescente complessità del mondo – e di te dentro – in una cesellatura di lessico, grammatica e sintassi, ben oltre il livello della sopravvivenza? Senza lingua la triade non è completa e non può esserci voce, ma solo un concreto rischio di decrepitudine. Ma come sospettavate, amici italofoni in un mondo allofono, non basta saper intessere arazzi linguistici per possedere veramente una lingua, e quindi una voce. Serve anche l’ingrediente segreto, la pagina mancante del manuale di filtri magici senza la quale la formula non prende vita.
“Stranieri: esseri liberi e senza frontiere, costretti a lottare con quelle della lingua per trovare appigli nella propria ricostruzione”. Ero a Parigi, novembre 2016, per commemorare l’anniversario della notte nefasta che aveva stravolto le vite di molti. La voce al microfono omaggiava ogni categoria umana presente, e a noi stranieri (i più sfigati, venuti apposta da lontano per ritrovarci a schivare pallottole) toccò questa frase. Sarà che quel giorno ero emotivamente a pezzi, ma ascoltai e piansi a dirotto. Nessun insight su quel pilastro identitario che è la lingua aveva mai così ben riassunto, senza per questo ridurli, la passione che muove il viaggiatore, il gap che sempre differenzia un forestiero da tutti gli altri – persino quando è perfettamente in grado di tradurre quello che ha intorno –, e la solitudine che può derivarne. Eppure, in tutto ciò, io una voce a Parigi ce l’avevo. Avevo studiato e lottato per non tralasciarne nessun ingrediente; me l’ero conquistata, e con lei vivevo.
Poi sono atterrata a Melbourne, e all’inglese. Tutto da rifare, lontana dalla molteplicità europea come dai brutti ricordi. Come ultimo atto prima della partenza, ho preso il mio bel diplomino IELTS e ne rimiravo l’ottimo punteggio, pensando tracotante “inglish nun te temo!”. Ma era solo la beata ignoranza del mesto siparietto coniugale che avrebbe a lungo animato le mie nuove serate – in cui io e lui, sul divano, ci scambiavamo i cellulari: io ascoltavo i suoi messaggi vocali e lui i miei, sai mai che prima o poi unendo le orecchie ci capissimo qualcosa. Chi ha telefonato? Cosa vuole? Perché? L’onta. Alla faccia di lauree e titoli, che sghignazzavano beffardi spiandoci dai loro cilindri di cartone sullo scaffale. Il maledetto accento! Nessuno mi aveva avvertita di una tale aberrazione fonetica e glottologica. E io, come un tempo già fece Russell Crowe scagliando via il gladio e tuonando “Are you not entertained?!?”, rivoltandomi interpellavo chi sapeva e aveva taciuto. E lo odiavo, quell’orrifico Aussie English. Astio, smarrimento e disabilità sociale; e perciò ero muta. Come uscirne? In due tappe, una per la lingua e una per l’ingrediente segreto.
La prima era scontata: andare là fuori, uscire dalla comfort zone e fare cose, lavorare, studiare, aiutare. Mescolarmi a ogni contesto sociale. Oggi non solo decifro la segreteria e l’uomo della strada, ma il mio dittongo British “ai” si livella sempre di più sull’“oi” di Down Under. Per forza; e avanti di mimesi. E poi, un bel giorno, la svolta.
Guardavo svogliatamente la tv, con la mente ancora là al vecchio mondo. A Melbourne e sullo schermo c’erano gli AusOpen, e riscoprivo il tennis quale sport che ben si confà allo spirito locale, con i suoi tempi dilatati e resistenti, la sua calma concentrata e disciplinata, quella forma mentis di protratta accettazione da assumere per potersi godere lo show, per sentirsi tutt’uno con il calore, la birra estiva, un punteggio sempre faticosamente ridiscusso, i ‘no worries’, la terra rossa fuori dalla finestra e la voglia di essere parte del match.
E per la prima volta, la parlata dei cronisti, mandriani del mio outback linguistico, invece della solita riluttanza mi instillava una nuova fiammella di spirito: la familiarità. Riconoscevo quell’accento – era grezzo, sì, ma era quello del mio mondo. Era fatta.
Da brava Millennial mi sono ricordata di Holly e Benji, e della partita decisiva in cui Holly, dopo svariati sforzi mnemonici andati a vuoto, si sovviene epifanicamente di cosa stava scritto alla pagina 52 del manuale del buon giocatore, e si riscatta. Avevo trovato la mia pagina mancante.
La pagina 52 è quella che tratta dell’amore. Non importa per quale frontiera stai lottando, ma solo se ti ci appassioni ne verrai a capo. La téchne da sola non basta. Devi desiderare – di più: devi aderire intimamente a ciò che vuoi espugnare, trovandolo giusto, necessario, illuminante; o ti rimarrà sempre un po’ estraneo. Ama quello che fai, divertiti mentre lo fai anche quando credi di non averne motivo – così diceva la pagina, e sembrava dire anche la mia vita.
Sono uscita là fuori, e da un giorno all’altro la lingua australiana mi sembrava bella, logica, inevitabile. La desideravo. Volevo giocare con lei, e non solo perché dovevo. Mi auguravo che combaciassimo, che quel suo modo di declinarsi cesellasse un po’ la mia mente, che mi modellasse. Volevo esprimerla.
Ed è così che è nata pian piano la mia nuova voce. È stato bello riscoprire di averne una, al di là delle varie lingue a disposizione. È un processo più trasversalmente evolutivo, che riguarda la mente tutta, e anche la lingua madre.
Ho ripensato ad Ariel. Ho preso la mia nuova voce e l’ho dispiegata come potevo: scrivendola. Il mio primo, piccolo richiamo della sirena è stato udito, e ho trovato una nuova amica. Domani chissà. Ma intanto ora sono a casa, per davvero. E ho voglia di dirla.
["The Little Mermaid" and "Captain Tsubasa" images: from the Web]
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